Alle amiche.
Tutte diverse.
Ognuna con una storia da raccontare.
Da tutte qualcosa da imparare.
Una rete per allegre fughe dai doveri qutoidiani
Unite si è più forti e si vive meglio.
Il Premio Strega va di pari passo con la storia del nostro Paese. Come si può leggere nel sito ufficiale: “i Premi Strega hanno raccontato il nostro Paese, documentandone la lingua, i cambiamenti, le tradizioni. In questi anni le scelte compiute dal Premio hanno contribuito a migliorare il rapporto degli italiani con i libri, incoraggiandoli a leggere sé stessi, la loro storia e il loro presente attraverso lo specchio della narrativa contemporanea”. La creazione del Premio risale al 1947, e l’intento di coloro che ne promossero la nascita, fu quello di aiutare un’Italia distrutta dalla follia della Seconda Guerra Mondiale.
Eppure questo pezzo di storia italiana da qualche tempo fa acqua dappertutto e viene criticato da molti scrittori e personaggi della cultura. Uno di loro Roberto Saviano con la franchezza che lo contraddistingue ha dichiarato polemicamente sulle colonne di Repubblica: “Allo Strega siamo affezionati perché fa parte della nostra storia, ma negli anni ha perso fascino, perché ormai è diventato un gioco sfacciatamente combinato… Finora si è imposta la regola “quest’anno vince il mio, l’anno prossimo vince il tuo” che sta mortificando i migliori talenti letterari italiani… Un’editoria in crisi non comprende che non è la vittoria di un premio benché prestigioso a dare nuovo lustro all’intero settore, ma la partecipazione che bisogna creare attorno ai libri”. Dunque la proposta di Saviano è quella di candidare un’outsider, uno scrittore fuori dal coro, una persona di cui non si conosce il volto, di cui non si sa neppure con certezza se si tratta di uomo o donna: Elena Ferrante. Le ragioni sono diverse la prima e la più importante è quella che la sua partecipazione “romperebbe gli equilibri di un gioco scontato”, portando una ventata d’aria fresca con il suo progetto letterario moderno nato ventitré anni fa, attraverso il libro, la carta stampata, le parole da lei scritte che non necessitano della presenza stessa dell’autrice, e questo basterebbe per Saviano a scatenare un dibattito, finalmente uno scambio di idee, quello che da’ il senso alla letteratura. Elena Ferrante ha accettato di concorrere al Premio Strega 2015 con L’amica geniale e rispondendo all’invito di Saviano nello stesso modo dalle colonne di Repubblica, non aspettandosi di vincere, né di arrivare nella cinquina finale e soprattutto senza presentarsi di persona afferma “È giusto e urgente, a volte, sparigliare le carte, ma le carte è ancora più giusto leggerle e farle leggere”.
Spirano venti di guerra dalle nostre parti. Libia, Ucraina, Medio Oriente. Come sempre in questi casi i fautori dell’intervento e quelli che sostengono le ragioni del dialogo. Ma nessuno che parli di una cosa fondamentale: ogni guerra è in se stessa assurdamente crudele. In guerra pochi decidono della vita di molti e magari si sentono anche la coscienza a posto. I media parlano di intervento e si improvvisano esperti di cose militari, senza dire che l’unica certezza è la sofferenza più atroce per chi si ritrova, in una maniera o nell’altra, nei combattimenti.
Già durante e all’indomani della prima Guerra mondiale ne avevano parlato due scrittori diversissimi: Jaroslav Hasek e Karl Kraus. Ceco il primo, austriaco il secondo. Hasek era un umorista che prese ferocemente per i fondelli le gerarchie militari, assieme alla retorica della guerra giusta, nella celebre opera il Buon soldato Sc’veik. Kraus era un intellettuale e un polemista formidabile che si scagliò contro le menzogne del potere e della stampa di allora sulla guerra: non c’era niente di giusto in essa, solo orrore cieco e irrefrenabile.
Avevano ragione questi due esseri inferociti: la prima guerra mondiale fu un’inutile carneficina.
Ce lo ha ricordato un magnifico spettacolo teatrale di Robert Wilson, prodotto l’anno scorso in occasione del centenario della prima guerra mondiale: si chiama 1914. E’ basato proprio sui lavori di questi scrittori. La parte di Hasek è burlesca e recitata in costumi e scenografie splendidi, con le assurdità geniali del soldato Sc’veik che ridicolizza ogni istituzione legata alla guerra; quella di Kraus è durissima, con una figura femminile che appare nerovestita sul palco e si muove come la Morte ne Il settimo sigillo di Bergman, recitando parole che riportano alla crudezza della realtà di ogni conflitto. A un certo punto il teatro è invaso da fumi di scena, con i personaggi che cantano e avanzano a ritmo di musica dal fondo della scena, indossando maschere antigas. Nello spettacolo le luci e le scene erano un’opera d’arte visiva, e per certi versi si provava la stessa emozione di vedere l’arte contemporanea fusa con l’arte del teatro. La prima dello spettacolo è stata presentata da pochi giorni al Festival Scenes d’Europe a Reims, indimenticabile.
È universalmente noto che a Venezia si svolga dal 1948 la Biennale d’Arte probabilmente più famosa al mondo. La Biennale (basta il solo nome per definirla) deve la sua fama alla capacità della provata macchina organizzativa, che riesce a portarvi i migliori artisti da ogni angolo del mondo, ma sicuramente a tale fama non estranea è anche la location, assolutamente da sogno, rappresentata da una delle città più belle del mondo.
Esistono però altre mostre d’arte a scadenza biennale che, non altrettanto note, svolgono nel loro piccolo un enorme lavoro di conoscenza e avvicinamento all’arte.
Fra tante altre, interessante è la Biennale di Dharavi in India. Dharavi non è una città, non è un villaggio, è lo slum più grande del mondo (ricordate The Millionaire, il film premio Oscar di Danny Boyle?) con oltre 750.000 abitanti nel distretto finanziario di Mumbai. Ebbene qui dal 15 febbraio al 7 marzo si svolge la prima Dharavi Biennale, basata sul contributo culturale ed economico della popolazione dello Slum di Dharavi. Questo luogo conosciuto per le condizioni di estrema indigenza in cui versano i suoi abitanti e allo stesso tempo per la sua incredibile forte espansione, attraverso l’arte cerca di reinventarsi. E lo fa presentando centinaia di opere incentrate sulla violenza, l’alimentazione, la salute e il lavoro nello slum. Tutto ciò non solo a scopo artistico, ma anche e soprattutto a scopo educativo. Il tentativo è infatti quello di collegare l’arte alla scienza per promuovere la salute attraverso la creatività.
Organizzata dalla SNHEA (Society for Nutrition, Education & Health Action), ong indiana che si occupa della salute delle mamme e dei neonati, che si batte contro le violenze domestiche e sulle donne, che promuove la salute e la nutrizione dei bambini e la vita sessuale e riproduttiva consapevole, attraverso la Biennale di Dharavi punta lo sguardo sugli aspetti positivi e negativi della vita dello Slum. La maggior parte delle opere d’arte esposte sono state realizzate non solo da grandi artisti, ma da molteplici laboratori nati per l’occasione e sono tutte create con materiali riciclati.
Cosa mi piace? Tutti quei luoghi che accumulano una storia. Ho in mente un vecchio ristorante, vicino ad un teatro, con dentro, sui muri, tantissime testimonianze di vita e arte, come foto di attori, artisti, poeti o persone qualunque passate di lì, ma anche disegni, quadri, vecchi menu e manifesti teatrali.
Cosa non mi piace? I luoghi anonimi, tutti uguali, perfetti nella cura della tappezzeria e nel design, ma incapaci di raccontarti ciò che sono. In quei luoghi non si può piu rintracciare la passione e la storia di chi ci lavora o ci abita.
Mi piace visitare o farmi ospitare in tutti quei luoghi che sono curati come se fossero lo specchio dell’anima di chi ci vive. Mi sembrano sempre piu rari, ma anche per questo sempre piu pregiati.
Buona settimana
La cartolina di oggi la spediamo a tutti coloro che scelgono il mestiere di insegnante.
Per farlo bene occorre sviluppare una miscela speciale di cui si conoscono gli ingredienti, ma è difficile calcoalre bene le dosi. Si tratta di professionalità, passione, rispetto per gli alunni e dell’aver sempre una gran voglia di conoscere. Ce li ricordiamo i nostri insegnanti di un’Italia che fu: appassionati alla loro materia, alcuni, sfiniti e disamorati del proprio lavoro, altri. Gli insegnanti della scuola pubblica, che venivano in bici o in treno a lavorare. Si fumava nelle classi allora. C’era stata la contestazione ma in provincia, dove vivevo io, c’era sempre un certo rispetto per il professore. Poi siamo venuti all’estero, abbiamo trovato scuole diverse (anche quelle internazionali), eppure la questione è sempre la stessa. Ovunque non è solo questione di struttura scolastica, programmi e moduli. La differenza la fa sempre la persona, con la sua capacità di entrare in rapporto con i ragazzi.
Ho una figlia che sta per finire il ciclo della scuola superiore e le ho chiesto quanti insegnanti abbiano veramente rappresentato qualcosa per lei. In 12 anni di scuola, mi ha risposto, una professoressa di storia ha fatto davvero la differenza: con lei si è veramente appassionata a quella materia. Mi ha addirittura confessato che vorrebbe diventare come lei, anzi che la storia sarà proprio la materia che sceglierà all’univesità.
Essere insegnanti è un lavoro di grande responsabilità.
Il 21 febbraio del 1925 uscì il primo numero di quello che è diventato uno dei magazine più longevi e famosi al mondo: The New Yorker. Fra qualche giorno dunque saranno 90 anni che per 47 volte all’anno, la rivista creata da Harold Ross e dalla moglie Jane Grant, sarà in edicola con una veste celebrativa che comprende 9 copertine, una per ogni decade.
Il magazine che ha fatto dello spirito cosmopolita e sofisticato la sua bandiera, si occupa da sempre di reportage, critica letteraria, saggi, narrativa, commenti politici e sociali, satira, poesia e fumetti. Esso è divenuto nel tempo un luogo di incontro fra scrittori e giornalisti, in cui l’attenzione alla narrativa contemporanea ben presto diventa il punto focale della sua comunicazione. È qui infatti che scrivono Roth, Salinger, Nobokov presentando alcuni racconti brevi, ma anche la Munroe, Murakami, Shaw, Capote e tanti altri.
Segno caratteristico della rivista in questi novant’anni di vita sono sempre state le copertine, realizzate di volta in volta da artisti non solo americani (ricordiamo ad esempio la copertina futurista disegnata da Depero) e spesso controverse (la copertina completamente nera di Ad Reinhardt dopo l’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre).
Insomma una vera e propria istituzione resa tale dalla scrupolosa verifica delle notizie prima della pubblicazione e dalla cura editoriale quasi maniacale.
Timbuktu! Chi non conosce questo nome fra noi italiani? Era sinonimo di luogo lontanissimo (lo ricordate il cattivo Edgar, che veniva spedito dagli Aristogatti e dai loro amici in quella città?) o di culture lontane e raffinatissime. Si vociferava delle sue biblioteche e dei suoi edifici di fango, fatti per resistere alle temperature dei deserti africani. Si sapeva che era nel cuore de Mali, ai margini del deserto.
Quasi tre anni fa, però, questa città, dove da sempre convivevano culture antichissime con un islam coscienzioso e rispettoso delle persone, cadde in mano agli estremisti di Al Qaeda e delle sue reti del terrore criminale. Via la tolleranza, allora; le donne vengono subito sottomesse e costrette a pratiche umilianti, si compiono lapidazioni per gli adulteri e così via. Arriva il fondamentalismo più crudele e orribile. Ma arriva per mano di gente venuta da fuori, e in una società abituata al dialogo e alla convivenza, che rimane scioccata. I nuovi venuti non parlano nemmeno la lingua locale, ma impongono un orrore senza alcun rispetto per niente e nessuno. Fanno proseliti, ma anche fra questi serpeggiano dubbi atroci: ma cosa stiamo facendo?
Tutto questo è mostrato magistralmente in un bel film di un regista della Mauritania, Aberrahmane Sissako, che usa la fotografia e i dialoghi per mostrare l’assurdità crudele della situazione. Gli estremisti impongono restrizioni assurde anche alla vita comune: il calcio è proibito, la musica pure, le donne debbono portare i guanti. L’Imam locale, guida religiosa della comunità musulmana, un uomo pio, si oppone a tutto questo con coraggio e argomentando sulla base della dottrina migliore. Ma non c’è niente da fare.
Il film segue alcune vite, viste come parabole dell’umanità quando diventa preda dell’orrore totalitarista o estremista. Vi sono scene memorabili, come quando un gruppo di ragazzi mima il gioco del calcio, perché privati de pallone, considerato impuro. Vi sono la luce di quelle regioni, la sabbia onnipresente, gli occhi di uomini e donne che rispecchiano l’umanità dei nostri giorni, attonita davanti all’incommensurabile follia di un’ideologia assassina. Sappiamo che la città venne liberata dalle truppe francesi e che gli estremisti ne vennero cacciati. Ma restiamo scossi in profondità da questo capolavoro che adesso è candidato all’Oscar 2015 per il miglior film straniero.
Sembra impossibile, eppure di moltissime personalità della storia non si conoscono le vere sembianze.
Ad esempio non si sa con esattezza quale sia il vero volto di Shakespeare, perché la maggior parte dei suoi ritratti sono di epoca posteriore alla morte. Stesso discorso per il volto di Michelangelo o per quello del Mantegna. Sono personaggi che hanno avuto un peso e un ruolo importante, eppure di loro sfuggono i tratti o, per lo meno, non ci sono certezze. Gli investigatori del passato, in questi frangenti, si scatenano. Ed oggi le nuove tecnologie vengono in aiuto a chi si fa un punto d’onore rendere il volto a quelle figure storiche di cui si sono perse le sembianze.
È accaduto ad Anna Bolena la seconda moglie di Enrico VIII, madre della più famosa regina inglese, Elisabetta I. Tutta la sua storia è un vero e proprio romanzo. La sua figura ha esercitato non solo sui suoi contemporanei, ma anche nei secoli successivi, un notevole fascino. La bella dama dalla carnagione olivastra, che divenne regina di Inghilterra innescando lo scisma anglicano, ha dato adito a leggende, storie romantiche ed ha anche solleticato la creatività di Gaetano Donizetti che scrisse per lei un’opera famosa.
Di lei non sopravvivono ritratti coevi, forse in ottemperanza al dictat di Enrico VIII che li fece distruggere sperando di distruggere insieme ad essi anche il ricordo di questa moglie scomoda che, come già era accaduto con Caterina di Aragona, non era riuscita a dargli il tanto desiderato erede maschio. L’unico ricordo coevo di questa regina triste, fino ad oggi era un medaglione del 1534, coniato quando ella si trovava alla seconda gravidanza, medaglione in cui la regina è effigiata a mezzo busto e conservato al British Museum. Oggi grazie alla tecnica computerizzata del riconoscimento facciale, però, quello che per secoli è stato creduto il ritratto di Jane Seymur (la terza moglie del re, dama di compagnia della Bolena, e sua la grande rivale) – una vera e propria beffa alla sua memoria – è stato definitivamente attribuito ad Anna stessa. Finalmente la regina, giustiziata nel 1536, ha un ritratto e le è stato donato dai ricercatori dell’Università della California.
Il programma di riconoscimento facciale utilizzato è sofisticatissimo, infatti contrariamente a ciò che capita nel riconoscimento di un viso fra la folla, il computer deve elaborare un risultato partendo da pochissimi dati certi. In questo caso i dati forniti dal medaglione del XVI secolo.
Se i ricercatori americani hanno ragione il volto della Bolena è molto meno attraente di quello ritratto nel dipinto conservato alla National Portrait Gallery, di Londra, realizzato da un artista sconosciuto che si era basato, a sua volta, su un’opera perduta.
Quello che ci si può chiedere è se è effettivamente importante conoscere le sembianze dei personaggi storici, o se, piuttosto, è infinitamente più appagante e divertente crearsi delle figure che riflettono il nostro personale giudizio su di loro, un po’ come per i personaggi della letteratura. Infatti quante M.me Bovary esistono?
Mercoledì mi sono trovata in un piccolo bar nella mia città, Pistoia; la proprietaria, una signora dai capelli bianchi, mi ha detto di avere un cliente fisso che si reca ogni giorno al suo bar. Bussa con il becco alla porta, entra volando, prende un piccolo pezzo di brioche e, felice per la riuscita ghiottoneria, riparte. E’ un piccolo uccellino.
Ho provato simpatia quando i tre simpatici ragazzi del gruppo il Volo hanno vinto questo Sanremo: i loro occhi brillavano e sicuramente staranno ancora festeggiando la vittoria.
Ho sorriso anche quando l’ospite Will Smith ha intonato la canzone Volare, di Domenico Modugno, retaggio dei suoi ricordi d’infanzia, legati alla nonna americana.
Mentre rifletto che ormai sono mesi che Astrosamantha, la nostra astronuata familiare a tutta Italia, ci tiene legati al cielo con il suo diario di bordo. Con i suoi occhi ci fa sentire più vicini al mistero dell’Universo.
Infine non riesco a togliermi dalla mente l’immagine di quelle teste rivolte verso il cielo: centinaia di migranti dentro l’ennesimo barcone in fuga. È la foto di Massimo Sestini, colta dall’elicottero della Marina Militare nel canale di Sicilia. Vi si vedono tutte quelle persone appiccicate in uno spazio ridottissimo che guardano in su, verso il cielo, mentre sono in viaggio, in fuga da un mondo che non offre loro altra possibilità che il rischio di un viaggio spesso fatale.
Mi risuonano nelle orecchie le parole di una vecchia canzone di Renato Zero “quanta violenza sotto questo cielo…”
E così penso che il cielo e l’atto di volare nel bene e nel male siano le cose che più mi hanno colpito in questa settimana appena trascorsa.