Alla luce dei recenti avvenimenti mi sembra giusto spendere alcune parole su una figura storica che è stata strappata con prepotenza all’oblio e che è improvvisamente divenuta attualissima anche perché fa parte del bagaglio culturale di noi italiani, che ne abbiamo appreso la vicenda sudando sulle terzine dantesche della Divina Commedia. Sto parlando di Celestino V, al secolo Pietro del Morrone, che Dante incontra all’inferno riconoscendo “l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto”. E questo giudizio tranciante del sommo poeta accompagna da sempre il personaggio letterario di Celestino V, ma si discosta da quello storico. Ridurre infatti l’intera vicenda di quest’uomo al severo giudizio dantesco sarebbe ingiusto.
Eremita, contemplativo, di enorme e profonda cultura Pietro istituì, dopo anni passati nella solitudine del suo eremo sulla Maiella, un ordine monastico, che seguiva la regola benedettina, che venne riconosciuto da papa Gregorio X e dotato di sostanziosi beni.
Visse Pietro in un’epoca di profondi stravolgimenti politici, in cui si scontravano due concezioni diverse del papato: una che vedeva la Chiesa come espressione del potere, l’altra che la considerava pura diffusione dell’amore divino. Due modi di intendere anche la figura del pontefice, dicotomia che inevitabilmente portò un uomo di amore e fede come Pietro a lasciare il soglio pontificio con un profondissimo gesto di umiltà. Era stata la sua fama di uomo “angelico” che aveva indotto i cardinali riuniti in conclave da 33 mesi (!) a eleggerlo papa nel 1294. Durante il breve pontificato, Pietro, divenuto Celestino V, si rese conto di dover guidare un cambiamento sostanziale nella struttura stessa della Chiesa medievale, che viveva anni di turbamento in attesa che si compissero le profezie trinitarie di Gioacchino da Fiore, il quale aveva parlato della fine di una Chiesa Cattolica dominata dalle istituzioni e l’inizio di un periodo in cui sarebbero prevalsi l’amore e la spiritualità, al punto che gerarchie, riti e dogmi della antica Chiesa sarebbero diventati inutili poiché lo stesso Spirito Santo l’avrebbe guidata su un cammino di pace e riconciliazione. Promuovere dunque un sostanziale cambiamento, questo era compito che Celestino, uomo di contemplazione e non di azione, calato in un ambiente apertamente ostile, quale la curia romana, non si sentì degno di portare a termine.
Come dargli torto? Alla luce di ciò, credo che finalmente Celestino possa essere assolto dall’accusa di “viltade” mossagli da Dante. Uomo semplice aveva sperato che il suo successore potesse essere più degno del compito di traghettare la Chiesa fuori dai pericoli della sua epoca. Oggi sappiamo che la storia non è stata benevola, il successore di Celestino fu infatti Bonifacio VII, non esattamente un campione di probità.
