Eredità

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Pietro Cipriani

Non capita a tutti di finire le feste di Natale ricevendo un’eredità. Questo è quello che mi è capitato in questi giorni di festa.  Grazie a un nonno ostinato e caparbio abbiamo potuto portarci in Svizzera una parte dell’eredità del suo babbo.

L’oggetto della successione si intitola: Appunti per una storia della letteratura italiana. Il nonno di mio marito, Pietro Cipriani, nel corso della sua vita di insegnate, aveva pubblicato manuali scolastici e antologie di vario genere, che avevano anche avuto diverse ristampe. Si era negli anni Cinquanta e Sessanta. Poi, in vecchiaia, si era dato a scrivere una breve, ma completa, storia della letteratura italiana.

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Era stato maestro, prima di divenire professore, e sapeva come chiarezza e semplicità siano ingredienti chiave del passare ogni conoscenza. Così, un po’ per passione di insegnante, un po’ per amore di scrittura e di cultura, un po’ per consentire ai figli e ai nipoti di continuare a godere delle sue bellissime conversazioni di storia e letteratura (sempre interessantissime: mio marito mi ha raccontato che stavano ad ascoltarlo incantati), scrisse, a amano, su delle agende (di quelle che un tempo, prima di dedicarsi a investimenti scellerati, fornivano le banche, col nuovo anno), una storia della letteratura italiana. Morì prima di completarla, così il libro si conclude col Carducci. E’ stato mio suocero Alberto a riordinare gli appunti e a darli alle stampe. Io ho appena cominciato a leggerla. Pagine divertentissime, scritte in una lingua fresca ed esteticamente bella, anche con parole (purtroppo!) desuete. Parlando di Cecco Angiolieri, un senese discolo e beffardo, e delle enormità di cui farcisce i suoi sonetti, menziona anche il fatto che Dante lo aveva evidentemente rimproverato delle sue scioperataggini. Lui, lungi dall’ascoltarlo, gli aveva risposto come una vipera. La letteratura, con lui, diventa viva, con i suoi protagonisti che sono compagni di viaggio (l’Ariosto è uno dei più amabili uomini che sia dato conoscere). Parlando della lingua del Machiavelli, nelle sue poesie si esprime cosi’: una singolare ed efficacissima mescolanza di vocaboli popolareschi e solenni, di termini latini e fiorentini, senza la minima traccia d’ornato e di sforzo, insuperabile per evidenza e robustezza. Insuperabile come la prosa di Pietro Cipriani, che ha anche il pregio di farci capire quanto la nostra lingua si sia impoverita e banalizzata, col pecoronismo (e io qui, pur non essendo una scrittrice, ci schiaffo il neologismo) televisivo degli ultimi decenni.

Chi era Celestino V?

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Alla luce dei recenti avvenimenti mi sembra giusto spendere alcune parole su una figura storica che è stata strappata con prepotenza all’oblio e che è improvvisamente divenuta attualissima anche perché fa parte del bagaglio culturale di noi italiani, che ne abbiamo appreso la vicenda sudando sulle terzine dantesche della Divina Commedia. Sto parlando di Celestino V, al secolo Pietro del Morrone, che Dante incontra all’inferno riconoscendo “l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto”. E questo giudizio tranciante del sommo poeta accompagna da sempre il personaggio letterario di Celestino V, ma si discosta da quello storico. Ridurre infatti l’intera vicenda di quest’uomo al severo giudizio dantesco sarebbe ingiusto.
Eremita, contemplativo, di enorme e profonda cultura Pietro istituì, dopo anni passati nella solitudine del suo eremo sulla Maiella, un ordine monastico, che seguiva la regola benedettina, che venne riconosciuto da papa Gregorio X e dotato di sostanziosi beni.
Visse Pietro in un’epoca di profondi stravolgimenti politici, in cui si scontravano due concezioni diverse del papato: una che vedeva la Chiesa come espressione del potere, l’altra che la considerava pura diffusione dell’amore divino. Due modi di intendere anche la figura del pontefice, dicotomia che inevitabilmente portò un uomo di amore e fede come Pietro a lasciare il soglio pontificio con un profondissimo gesto di umiltà. Era stata la sua fama di uomo “angelico” che aveva indotto i cardinali riuniti in conclave da 33 mesi (!) a eleggerlo papa nel 1294. Durante il breve pontificato, Pietro, divenuto Celestino V, si rese conto di dover guidare un cambiamento sostanziale nella struttura stessa della Chiesa medievale, che viveva anni di turbamento in attesa che si compissero le profezie trinitarie di Gioacchino da Fiore, il quale aveva parlato della fine di una Chiesa Cattolica dominata dalle istituzioni e l’inizio di un periodo in cui sarebbero prevalsi l’amore e la spiritualità, al punto che gerarchie, riti e dogmi della antica Chiesa sarebbero diventati inutili poiché lo stesso Spirito Santo l’avrebbe guidata su un cammino di pace e riconciliazione. Promuovere dunque un sostanziale cambiamento, questo era compito che Celestino, uomo di contemplazione e non di azione, calato in un ambiente apertamente ostile, quale la curia romana, non si sentì degno di portare a termine.
Come dargli torto? Alla luce di ciò, credo che finalmente Celestino possa essere assolto dall’accusa di “viltade” mossagli da Dante. Uomo semplice aveva sperato che il suo successore potesse essere più degno del compito di traghettare la Chiesa fuori dai pericoli della sua epoca. Oggi sappiamo che la storia non è stata benevola, il successore di Celestino fu infatti Bonifacio VII, non esattamente un campione di probità.