Philip Roth, 80 anni il prossimo marzo, ha pubblicamente annunciato, attraverso il magazine francese Les in Rocks di non voler più scrivere.
Sul suo computer, infatti, ha digitato una frase molto chiara e definitiva: “la lotta con la scrittura è finita”.
Roth autore di capolavori indimenticabili quali La macchia umana, Pastorale americana, Lamento di Portnoy, Nemesis e tanti tanti altri, segna cosi il suo addio alla scrittura che per lui è stata madre e matrigna… E anche facendo questo ci da una lezione di preziosa di stile ed umiltà.
Innanzitutto Roth ha un considerazione molto particolare della sua opera, egli infatti afferma di aver fatto del proprio meglio con il materiale umano e intellettuale a sua disposizione, non rinnega nulla, non ha rimpianti, afferma solo che il tempo della scrittura per lui à terminato, l’età soprattutto è ciò che lo ferma, l’età e la convinzione che non la scrittura, bensì la lettura sia ormai morta.
Nell’intervista rilasciata al magazine francese egli afferma che la scrittura è sempre stata un qualcosa di estremamente difficile per lui. Egli ha sempre avuto difficoltà a trovare soggetti e situazioni da comunicare. Ora a quasi ottant’anni Roth dice di non voler più leggere, scrivere e nemmeno parlare di romanzi, ai quali ha consacrato tutta la propria esistenza. Non prova più quel fanatismo giovanile che lo spingeva a non poter fare altro che scrivere. La sola idea di dover ancora una volta affrontare questa prova lo atterrisce. Oggi l’autore si sente privo di quella forza creatrice che ti spinge a scrivere ma che ti consuma interiormente. Scrivere significa essere sempre frustrato nelle proprie intenzioni di artista; si passa il tempo a scrivere le parole sbagliate, le frasi sbagliate, le storie sbagliate. Lo scrittore si sbaglia senza sosta e vive in uno stato di frustrazione perpetua. Si passa il tempo a dirsi questo non va, bisogna ricominciare.
Roth è stanco di tutto questo lavoro e per la scrittura non prove alcuna melanconia, si è dedicato, come egli stesso afferma, a un’attività che più si addice ad una persona così anziana. Sta sistemando, infatti, il suo archivio personale per affidarlo poi un autore di sua fiducia affinché ne faccia buon uso.
Non è che Roth non creda più nella scrittura, egli crede piuttosto di non poter comunicare più nulla al suo pubblico, di aver detto tutto ciò che poteva, non crede nella morte del romanzo ma nella morte della lettura, uccisa dallo schermo del cinema, della televisione e ultimamente del computer. Augura infine ai nuovi novellisti, come J. Franzen, di cui ammira l’opera, grande fortuna, ma soprattutto il coraggio di continuare nonostante tutto.
Con questo si chiude l’epopea di un mito del romanzo mondiale, con ciò Roth ha scritto già l’epitaffio sulla sua vita e la sua opera, sconfitto forse da un mondo troppo veloce, egli, cantore di un’intera epoca e di un’intera umanità, ha deciso di far tacere per sempre la sua voce.