L’arte non isola al contrario accomuna

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Farhad Moshiri, God in Color, 2012

Mentre l’arte continua a mescolare le carte e a offrirci un ventaglio sempre più ampio di linguaggi e di sensibilità artistiche e culturali diversissime, come parte di un’unica realtà, la politica si affanna a rimarcare i confini e le appartenenze.

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Farhad Moshiri, Life is Beautiful, 2009

L’artista iraniano Farad Moshiri nato a Shiraz, in Iran, nel 1963, è uno dei tanti esempi di questa capacità dell’arte di creare ponti e non momenti di separazione. Moshiri è interessato a fondere la cultura orientale con quella occidentale . Fa uso di immagini popolari e le compone con gusto ornamentale internamente appartenente alla cultura persiana. Le immagini possono essere tessute, ricamate, ma sempre con uno sguardo al mondo contemporaneo, unendo la preziosità del lavoro manuale con paccottiglia  di poco valore. Nel suo lavoro troviamo decorazioni che toccano il kitsch per affrontare e illustrare temi politici di attualità, oppure un’ironia pop che non manca di inquietarci, come l’opera  presentata per la prima volta nel 2009 “Life is beautiful”: una semplice scritta tracciata sul muro con le lame di tanti coltelli diversi e colorati.

E’ un bell’esempio di come l’isolamento del paese, e tutti i problemi socio-politici ad esso connessi, non riescano a fermare l’arte ma, anzi, incontrino un grande apprezzamento nel pubblico.

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Farhad Moshiri, particolare dell’opera Life is Beautiful, 2009

Gli italiani sono ancora ostaggi dell’anguria e della bruschetta?

Team of people carrying an Internet cable.

In questi giorni ho avuto tra le mani delle vecchie riviste dei primi anni Novanta dedicate all’arte contemporanea. Sfogliandole ora, sembra sia passato un secolo.

Per esempio, prendiamo una copia del 1996 di Flash Art, un articolato dal titolo : Internet. Qui si spiegano i primi passi fatti da parte dei musei nell’uso di internet di cui si lodano le  capacità informative e si cercano di capire le sue “potenzialità estetiche”.

Sempre nello stesso giornale,  il giornalista e direttore di Flash Art Giancarlo Politi nel suo editoriale si lamenta dell’Italia della sua  scarsa attitudine ad una vitalità culturale attiva e propositiva nelle città e istituzioni. Così mentre in Francia- si legge-  investono in grandi progetti  culturali che si trasformano in eventi sociali , culturali e mondani straordinari, in Italia la cultura è sinonimo di seriosità e depressione . Politi  deluso sottolinea come gli amministratori delle città preferiscono all’arte, l’anguria gratis o la pasta e fagioli.

Divertenti questi echi lontani di discussioni infinite. Molte cose sono cambiate.

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OGR, Officine Grandi Riparazioni, Torino

Faccio un esempio. Sono tornata da poco da Torino dove ho visitato la nuova OGR le officine Grandi Riparazioni, un grande edificio di archeologia industriale da poco restaurato per ospitare concerti, mostre, spettacoli, performance. Un luogo fantastico . Al suo interno un ristorante, un bar molto gradevoli. Si è aperta una mostra dal titolo “Come una falena alla Fiamma”, dove l’arte contemporanea si presenta a fianco di  opere antiche e con esempi di  passioni collezionistiche. OGR è un luogo che ti accoglie in modo gaudente e frivolo un esempio perfetto di mondaneità, piacevolezza e cultura. Politi può considerare raggiunto l’obiettivo. 

Arrivano i robot

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Spillikin, Pipeline Theatre, Londra

Chi prevede il futuro ci ha avvertiti: i robot faranno sempre più le medesime cose che facciamo noi. Non sono un’esperta ma basta leggere le notizie che circolano in rete e lo si capisce bene. A Londra ad esempio in questi giorni, ha fatto scalpore il robot attore che recita al Pipeline Theatre nello spettacolo Spillikin.

Non pochi si domandano se saranno loro a comandare su di noi e in quanti lavori arriveranno a sostituirci. Qui in Svizzera invece la questione è affrontata da un altro punto di vista. Infatti l’avvocato e professore di diritto ginevrino Xavier Oberson, sul quotidiano Le Temps, ha argomentato sulla necessità che i robot debbano essere tassati.Stagno-classico-Vento-Fino-Giocattoli-Robot-Giocattolo-D-epoca-per-I-Ragazzi-Bambini-Regalo-Di-Natale

Insomma, se questa rivoluzione tecnologica è in atto, occorre comunicare a pensare a delle tasse che possano sostenere lo stato sociale futuro senza frenare l’innovazione.

Questo problema non ha ancora trovato una soluzione. Per il momento è stato chiesto al Parlamento Europeo di pronunciarsi sulla creazione d’uno statuto giuridico per i Robot. Norme che possano mettere ordine su robot e intelligenza artificiale. Staremo a vedere cosa ci riserva il futuro.

Donne

 

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Io sono cresciuta tra donne. La mia dolcissima madre, la nonna, una sorella, una zia e due signore che si alternavano a lavorare da noi. Tante donne nella stessa casa. E poi ricordo la mia prima amica del cuore con la quale trascorrevo le giornate, oppure le cugine che venivano da noi, in campagna, la domenica pomeriggio. Degli anni dell’università ricordo un’amica carissima con la quale ho condiviso gli studi e poi i primordi della vita autonoma. Ricordo con quanta gioia ho tenuto in braccio la mia prima cuginetta. Non so se ho tante amiche, ma quelle che ho me le tengo care. Per lavoro, ora sono a contatto con molte donne di tanti paesi diversi: portoghesi, inglesi, americane,svizzere. Ho tre figlie.

La mia vita è ancora circondata da donne.

Pina, Fosca, Rosa, Patrizia, Gabriella,Giulietta, Ornella, Anna, Maria, Ida, Daria, Adolfina, Filomena, Chiara, Poppy, Francesca, Miranda, Daniela,Barbara, Fiorella, Sandra, Annalisa, Serena, Virginia,Silvia , Giulia, Marianna, Clara, Caterina, Rosa,  Barbara, Claudia, Elena, Liliana, Emanuela, Paola, Lucia, Jo, Hera, Patty, Rose, Ingrid, Nicole, Giorgina, Mina, Fernanda, Sarah, Iolanda, Elisabeth, Tiziana, Lara, Livia, Enrica, Almea, Fulvia,Patrizia, Simona, Federica, Ritalba, Rita, Flora, Lia, Josiana, Laura, Zara, Lubna, Francine…

Ho un ricordo legato a ognuna di loro. Oggi,  in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, le penso tutte. Sono certa che coltivare la solidarietà tra noi ci permetterà di dire il fatto suo a chi ancora non ha imparato a rispettarci.

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Una mostra che non voglio perdere

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Tino Sehgal, performance Tate Modern, 2012

Una mostra che voglio veramente vedere  si aprirà il 12 ottobre a Palais de Tokyo, dell’artista Tino Sehgal. Sono sicura che sarà un’esperienza che non dimenticherò, come accadde la prima volta che vidi l’opera di Sehgal nel padiglione tedesco alla biennale di Venezia del 2005. Non so, pero’, se il verbo vedere sia quello giusto, perché il lavoro di Tino Sehgal non si vede: si vive. Non si può definire  un semplice performer, anche se il suo lavoro parte dal teatro;  lui si definisce un “costruttore di situazioni”. Non puoi afferrare con le mani la sua opera, non ci sono opere da vedere, ti devi accontentare il ricordo di un momento in cui ti ha coinvolto nella sua arte, con le sue parole, gesti e momenti di incontro.

Ho letto di questa mostra su Beux Arts di ottobre . Il suo intervento rientra in una manifestazione dal titolo “Cartes Blanches”, che offre all’artista la possibilità di lavorare in tutto lo spazio del Museo (13.000 quadrati).

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Tino Sehgal, Performance Biennale di Venezia 2013

Leggo nella rivista l’articolo di Emmanuelle Lequeux e già penso a come devo organizzarmi per andare a Parigi a visitarla. La mostra leggo sarà : “ Come un’odissea dove il visitatore farà esperienza della sua propria complessità , della sua soggettività. Confrontato  con delle opere che sollecitano un’energia folle, ciascuno può’ scoprire la sua scrittura individuale e risvegliare quella materia prima dormiente che costituisce i legami fra tutti noi, soggetti”. Leggo che per la mostra Sehgal ha invitato altri artisti come Daniel Buren o Philippe Parreno che presenteranno delle opere in dialogo con il  suo lavoro. Si rifletterà su alcuni concetti  come la sparizione dell’oggetto, la dipendenza tra opera e visitatore. Insomma Palais de Tokyo si trasformerà in un teatro perpetuo, un labirinto di percezioni diverse.

 Mentre penso a questa mostra vedo incroci di linguaggi artistici che si sfiorano e che partecipano insieme al lavoro più difficile che l’arte deve compiere : risvegliare la nostra attenzione e i nostri sensi. Allora penso ad una forma di teatro che non è lontana dalla ricerca di Sehgal . E’ il teatro sensoriale del drammaturgo e antropologo Enrique Vargas. Il teatro de los Sentidos,  che ho potuto conoscere grazie al lavoro dell’attrice Patrizia Menichelli, da decenni parte della compagnai teatrale dello stesso Vargas www.arsinteatro.it.

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Patrizia Menichelli

Gattopardi italiani

Il Gattopardo
tratto dal film  Il Gattopardo di Luchino Visconti

Un noto giornalista ci parla in questi giorni dei “gattopardi italiani”, trasformisti politici che sanno riciclarsi in ogni dove e che sembrano essere l’unico vero tratto comune a troppe figure pubbliche del nostro paese. Il giornlista ha scritto un libro su questo e ha anche un programma televisivo. Io, seguendo una sua intervista, mi sono sovvenuta del romanzo da cui lui ha preso la definizione di gattopardo: l’omonimo capolavoro di Tomasi di Lampedusa. L’avevo letto da giovane, spinta dalla scuola, ma adesso ho deciso di ripercorrerlo per curiosità.imagesCAD2HUGK

Sapevo che il gattopardo del romanzo è figura ben più complessa della definizione entrata in uso nel nostro linguaggio, ma non ricordavo quanto articolato e bello fosse il libro. Oggi, rileggendolo, mi sono trovata di fronte un’opera di arte ambientale, dove i protagonsiti sono perfettamente inseriti nell’ambiente e con esso interagiscono per arrivare a farne talmente parte. Non si tratta solo della capacità descrittiva di questo autore geniale, che visse in modo ritirato e forse anche fuori dal suo tempo. No, si tratta del suo descrivere mondi che si intrecciano e che si scambiano figure e storie: quello della nobiltà siciliana e quello della borghesia emergente (da affari e maneggi non sempre limpidi); la chiesa e il suo rapporto con tutti e due (incarnata dal gesuita padre Pirrone); il mondo della politica nuova, piena di promesse, ma già vecchia; il mondo del regime borbonico ormai decrepito e quello – appena sfiorato – dei contadini più poveri; gli stranieri che si affacciano curiosi su una Sicilia dalla bellezza tragica ed estrema.

Quando Tancredi e Angelica amoreggiano nelle stanze dello sconfinata residenza di campagna, sono parte di un ambiente che vive con loro e financo dentro di loro. Quando il Principe di Salina accusa la stanchezza esistenziale che lo attanaglia dopo il celbere (anche per il film di Visconti) ballo, egli è perfettamente parte delle consunte decorazioni dei soffitti e delle porte del palazzo che in quel momento lo ospita. E il principe, quando parla col delegato piemontese del desiderio d’oblio dei sicilani, non lo fa forse alla finestra, con la conca di palermo sotto gli occhi?

Certo vi è anche una lettura amara della società di allora, così vicina alla nostra quando si parla di arrivisti e approfittatori (Sedara non è una figura tristemente universale?). Il romanzo in questo sembra essere attuale. Ma alla fine più di ogni altra si ama la figura del suo protagonista, Fabrizio, principe di Salina. E  non perché rappresenti qualcosa che ci riporta al nostro tempo, ma perché è l’unico, fra tutti, ad avere coscienzza di sé e delle vere conseguenze del cambiamento in atto. E lo accetta con serenità, gestendo ciò che può gestire (come il fidanzamento di Tancredi) per salvare il salvabile. Non si illude Fabrizio: ha una mente scientifica, ragiona in modo razionale. Attende la fine del suo tempo perché sa che altro non può fare, per sua condizione e per la natura delle cose. Il suo aver uso di mondo è una magnifica commedia, alla quale egli si dedica perché sa che le forme rendono la fatica della vita appena più sopportabile.

L’arte, anche quella del romanzo, ci porta sempre su piani più alti del trito contingente. Peccato che il titolo di questo capolavoro sia usato per descrivere i viziacci dei nostri politici.

 

 

 

L’inferno sono gli altri!

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L’inferno sono gli altri!

Siamo tutti diventati paranoici… è vero. Magari non la mia generazione e quelle precedenti, ma a partire da quella successiva siamo diventati utilizzatori seriali dei social network. Dove sei, con chi sei, cosa fai, cosa pensi, cosa mangi, tutto viene diligentemente portato alla conoscenza di followers, amici, non amici, lontani parenti, ex compagni di classe, perfetti sconosciuti.

Ma chi non vuole sottostare alle regole del social networking cosa può fare ? Niente paura incominciano ad apparire applicazioni ad hoc.

La prima applicazione che vi voglio presentare è Ennemybook che come recita il sito è un «servizio anti-sociale che ti disconnette dai cosiddeti amici attorno a te ». Infatti l’applicazione pone un rimedio agli effetti di Facebook e permette di gestire i nemici in modo efficace come si gestiscono gli amici su Facebook. Alla lista dei nemici puoi aggiungere le ragioni dell’inimicizia, puoi mandare notifiche ai nemici, puoi vedere chi ti ha inserito nella propria lista di nemici ed eventualmente puoi diventare amico dei nemici dei tuoi nemici… Decisamente catartico!

Altra chicca del momento è l’applicazione Hell is other people (L’enfer, c’est les autres, l’inferno sono gli altri, mutuato da J.P. Sartre) che oserei definire l’accessorio dell’estate per il misantropo. Attraverso Foursquare (l’applicazione che consente di mostrare in tempo reale dove sei) infatti Hell is other people mappa la posizione dei tuoi “amici”  in modo da potersi tenere ben lontani da chiunque tu conosca. Geniale, l’autore lo definisce un esperimento di anti social media!

Allora per questa estate è chiaro, se non volete confondervi, raggrupparvi, farvi notare ecc ecc non si deve far altro che usare questi mezzi… la cosa migliore? Disconnettersi totalmente dalla rete, almeno per un po’

L’oblio e l’identità dei popoli

Minareto di AleppoVorremmo parlare brevemente e in modo differente dal solito della guerra civile in Siria. Il grido di dolore lanciato da Papa Francesco per fermare la strage, soprattutto dei i più piccoli (finora si stimano 8000 bambini morti), sovrasta ogni nostra possibile riflessione e da’ la misura della strage che si sta compiendo in quella terra. Neppure vogliamo prendere in considerazione le ragioni di una parte o dell’altra convinti che, comunque, una guerra con il carico di orrore che si trascina dietro non è mai giustificabile.

Vogliamo affrontare l’argomento da un altro punto di vista, infinitamente meno importante rispetto alla perdita di vite umane, ma che può far capire come, preso nella morsa degli eventi, un intero popolo possa dimenticare se stesso e la propria identità.

Identità che è scritta nella cultura, nell’arte, nei monumenti prodotti nei secoli che modellano le città e le rendono uniche. Cosa sremmo noi senza un Colosseo, senza una basilica di San’Ambrogio, senza una mole Antonelliana: infatti quel filo che ci unisce al passato e che ci rende unici senza di loro sarebbe irrimediabilmente reciso.

Purtroppo questo é ciò che sta accadendo in Siria. È di ieri la notizia che l’antico minareto della Grande Moschea Omayyade di Aleppo è stato distrutto. Simbolo di un’intera nazione, proclamato patrimonio dell’umanità dall’Unesco è stato abbattuto, forse per errore, il che rende ancora più tragico l’accaduto, come se non si trattasse di un pezzo della storia siriana, come se non appartenesse a quel popolo.

Sul sito dell’Unesco si legge che la città vecchia di Aleppo riflette le ricche e diverse culture che in essa si sono non solo sviluppate, ma susseguite. Resti che risalgono agli Ittiti, all’epoca ellenistica, romana, bizantina si mescolano con più recenti costruzioni arabe. La Grande Mosche fondata dagli Omayyadi nel 715 e ricostruita totalmente nel XII secolo, si trova in un fitto tessuto di suqs, khan e madrase (scuole coraniche) fra le quali la più famosa è quella che racchiude le vestigia dell’antica cattedrale cristiana di Aleppo: la madrasa Halawiye. Sulla moschea fino ad oggi svettava il minareto dei Mamelucchi, che era stato costruito nel 1090 ed era sopravvisuto a saccheggi e catastrofi naturali, con la sua forma sottile e le sue iscrizioni cufiche, splendido esempio di architettura araba.

Su tutto ciò ha prevalso l’oblio, l’odio di parte, un pezzo della storia siriana è stato cancellato e noi non possiamo fare altro che rammaricarci della perdita, ma ancora prima di questo, non possiamo che provare orrore e dolore per un popolo che ha perso se stesso e che, speriamo, possa presto riprendere a vivere.

La Pompei del Nord

Amuleto in ambraÈ di questi giorni la notizia che nel centro della City di Londra in seguito ad uno scavo in un sito in cui nel 2016 sorgerà il quartier generale europeo di Bloomberg sono stati rinvenuti oltre 10000 oggetti risalenti all’epoca romana, fra i quali si contano anche utensili in legno e pelle perfettamente conservati grazie all’ «ambiente anaerobico» nel quale erano immersi, con un giusto grado di umidità e temperatura, nel letto di uno del fiumi «perduti» di Londra: il Walbrook.

L’incredibile massa di materiali comprendenti monete, ceramiche, scarpe, portafortuna e un amuleto in ambra di un gladiatore, hanno portato gli archeologi a definire il luogo la Pompei del Nord.

La storia della Londra Romana è stata finora sconosciuta ai più. Ma come tutta la storia antica conserva un fascino particolare.

I romani giunsero in Britannia con l’imperatore Claudio intorno all’anno 43. Claudio, che succedeva a Caligola, aveva bisogno di un riconoscimento militare per poter esercitare il ruolo di imperatore senza problemi. Invaso il Kent pose come base e capitale della colonia Colchester. Ben presto però i romani individuarono un luogo lungo il Tamigi in cui i terreni, sebbene paludosi, permettevano la costruzione di un ponte e la possibilità di attraccare ii vascelli quando la marea rendeva le acque del fiume abbastanza profonde per le navi romane. Qui, nei pressi del London Bridge, nacque il primo nucleo di Londinium che fin dagli albori conobbe un’enorme sviluppo. Come di consueto i romani per prima cosa svilupparono l’assetto viario di Londinium, per collegare quella che nell’immaginario del popolo era l’estremità della terra al centro dell’impero, ciò fece accorrere mercanti stranieri e nativi della Britannia nella città, che mano a mano acquistò grande prosperità. Dopo un breve periodo di crisi dovuto all’invasione della città e alla sua distruzione da parte della Regina degli Iceni del Norfolk, Budica, Londinium si riprese e divenne il principale mercato della Britannia. Qui giungevano i beni di lusso da ogni angolo dell’impero per soddisfare i gusti ricercati dei romani che vi si erano istallati: vino e ceramiche dalla Gallia e dall’Italia, olio d’oliva dalla Spagna, marmo dalla Grecia e, naturalmente, gli schiavi. Ma c’era anche un fiorente mercato di esportazione di rame, stagno, argento, mais, ostriche e della spessa e pregiata lana per mantelli conosciuta come il «Britannicus birrus».

La città si era sviluppata sia a nord sia a sud del fiume, ma il suo cuore si trovava nella attuale City di Londra. La vita pubblica si svolgeva nel grande «forum», più grande dell’attuale cattedrale di St Paul, il più grande ad ovest delle Alpi – fulcro amministrativo e giudiziario ricco di costruzioni fra le quali la basilica e un tempio dedicato a Mitra. Immancabili naturalmente erano le terme e un anfiteatro che si trova sotto la Guildhall. La fortezza, sede della guarnigione militare della città, si trova sotto il Barbican. Nel momento di massimo splendore del periodo romano, cioè alla vigilia dell’arrivo dell’imperatore Adriano (colui che fece costruire a Nord il Vallo per proteggere i coloni romani e i nativi del Sud dalle tribù guerriere del settentrione), la città di Londra contava 45000 abitanti.

Ma a partire dal 3° secolo dopo Cristo la città romana iniziò un lento e costante declino. I probemi dell’impero imponevano una riduzione della guarnigione militare romana e ciò portò inevitabilmente all’impoverimento del luogo. Nel 5° secolo l’antica Londinium viene definitivamente abbandonata dai romani… ma è qui che inizia un’altra storia.