La Storia tradita

khatchkar-1200È di ieri la notizia che finalmente il Senato Italiano ha approvato il disegno di legge sul “reato” di negazionismo. Una brutta parola per un altrettanto brutto concetto, che si basa sulla negazione, contro ogni evidenza, di terribili eventi storici. La pena che secondo il ddl potrà essere comminata va dai due ai sei anni “se la propaganda, ovvero l’istigazione e l’incitamento commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah, o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello Statuto della Corte penale internazionale”. Ora tutto verrà rimandato alla Camera che sancirà definitivamente la legge, speriamo in tempi brevi.

L’approccio del negazionista alla storia e ben differente da quello dello storico. Innanzitutto l’utilizzo delle fonti diviene selettivo. Non tutte, infatti, vengono ugualmente studiate e approfondite. Il negazionista omette tutto ciò che non collima esattamente con ciò che vuole affermare, manipola i fatti li rende duttili alla sua propaganda, addirittura arriva a creare documentazioni false, riscrivendo una storia parallela priva di qualsiasi serio fondamento.

E così nascono mostruose teorie che negano la Shoa con il carico di dolore che comportò, che negano il genocidio Armeno del 1915 (già di per sé poco conosciuto), che negano insomma crimini disumani ai quali l’umanità ha assistito impotente (o indifferente?).

La storia per fortuna vive della memoria, dell’identità e della forza di tutti coloro che hanno subito questi crimini. E se la Shoa vive nel ricordo dei sopravvissuti, il genocidio armeno vive nel simbolo stesso di questo popolo il Khatchkar, la tipica stele funeraria a forma di croce che il popolo armeno scolpisce da oltre 2000 anni che è divenuto il simbolo della volontà di perpetuare la propria esistenza, a dispetto della costante sensazione del pericolo di scomparire.

Tutto questo non può essere cancellato, ma deve essere trasmesso nel modo più chiaro possibile alle nuove generazioni, affinché la storia non possa ripetersi…

La Shoa e il Silenzio di Dio

auschwitz1 Il 27 gennaio si è celebrata la “giornata della memoria”, dedicata al ricordo della Shoa. Si sono susseguite cerimonie ufficiali e non in tutto il mondo, sono stati scritti fiumi di parole per raccontare l’immane tragedia del popolo ebreo. Abbiamo lasciato il tempo che il clamore si placasse e deciso di parlarne oggi perché siamo convinte che non basti un giorno all’anno, ma che ogni giorno sia quello buono per ricordare, a dispetto di ogni revisionismo storico, e fare in modo che nella coscienza collettiva si faccia strada la convinzione che una tale dramma non si debba mai più ripetere (sebbene la storia contemporanea sia costellata di “piccole shoa” a confermarci che purtroppo la memoria è corta e la storia non è sempre magistra vitae).

Vogliamo ricordare la Shoa in modo diverso parlando di una deriva teologica nel mondo ebraico che essa ha provocato: la riflessione sul “silenzio di Dio”. Del tutto legittimo infatti pensare che se Dio è onnipotente avrebbe potuto fermare l’Olocausto, il Dio dell’antico testamento aveva dato assicurazioni al popolo prediletto. Dunque che senso ha avuto la Shoa, perché Dio non è intervenuto? Hans Jonas, teologo ebreo, nel suo testo Il concetto di Dio dopo Auschwitz, al nichilismo offre una via di scampo affermando che per concepire la conciliabilità fra bene assoluto, dunque un Dio buono e presente nella storia, e male assoluto, il risultato della storia stessa, è necessario ripensare al concetto di onnipotenza di Dio. Dio infatti avrebbe rinunciato a parte della sua onnipotenza per consentire l’esistenza e la libertà dell’uomo: “Rinunciando alla sua inviolabilità il fondamento eterno consentì al mondo di essere. Ogni creatura è debitrice dell’esistenza a questo atto di autonegazione e ha ricevuto con essa tutto ciò che può ricevere dall’aldilà”.

Oppure “per chi prende sul serio il male, per chi pensa quindi che rispondere alla vita e alla morte che ci interpellano negli altri e in noi stessi non vuol dire rispondere come se ci trovassimo dinanzi a un rebus o a una sciarada, cercando cioè il gioco di parole che risolve, che funziona, le cose appaiono meno insensate se si osa sperare che ciò che accade procede da Dio” e infine possiamo consolarci pensando che “per la fede, finché la fede sussiste, la tenerezza, la pietà, la speranza di salvezza, anche se fossero destinate al più radicale scacco, sono piene si senso” (S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, 1992).