Esiste una cura?

Prendersi cura di sé stessi e procurare benessere al nostro corpo  è oggi lo sport dominante.

Questa attenzione non sfugge agli artisti contemporanei; basti pensare alle performance di Vanessa Beecroft che istruisce gruppi di modelle presentandone il corpo nudo come opera d’arte.

Il tempo dedicato alla cura di sé non ci sembra mai un tempo sprecato, ma dovuto. E così tutti ci affidiamo  sempre più a chi ci promette di “alleggerire” le nostre giornate.

Risultato? Ogni raggiunto alleggerimento ci porta verso un congelamento delle emozioni, un aumento della svogliatezza e accresce in noi il timore di essere messi in gioco dal rapporto con gli altri. Per stare leggeri occorre non impegnarsi. Sarà un caso che San Francesco chiese scusa al proprio corpo, prima di morire, dal momento che non si era mai risparmiato nell’affannarsi per gli altri.

Non c’è dubbio che l’artista inglese Damien Hirst  questo lo doveva aver pensato quando, nel 1992, ha presentato l’opera Pharmacy. In questa installazione, infatti,  ha saputo cogliere  bene la nostra ossessione e ha rappresentato con il suo lavoro il miglior ritratto di questa epoca. L’opera è costituita dall’arredo di una stanza  fatta di vetrine  asettiche dove si possono ammirare, bene allineati, una miriade di medicinali di tutte le forme e colori. Sono la nostra cura, l’ancora di salvezza, per illuderci di poter sconfiggere con la scienza le ansie e i dolori, alleggerirci la vita e perché no renderci immortali.

Damien Hirst, Pharmacy,1992

Per gli interessati al fenomeno: sappiate, in anteprima, che la Tate Modern di Londra sta preparando una mostra dedicata all’artista, che rimane fin dagli anni Novanta il  principale animatore del gruppo YBAs (Young British Artistes). La mostra sarà visitabile dal 4 aprile fino al 9 settembre.

Il mistero dell’affresco perduto….

Gli ingredienti per un grande giallo ci sono tutti.

Un affresco scomparso, uno studioso ossessionato dal dipinto perduto, un indizio sibillino posto in un angolo dell’affresco che potrebbe aver ricoperto il capolavoro, fatto da una bandierina con una scritta enigmatica: «cerca trova».

Parliamo dell’affresco della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci, di cui da secoli si sono perse le tracce.

Il dipinto è appunto una celebrazione della battaglia combattuta ad Anghiari e vinta dai Fiorentini nel 1440 contro i Milanesi. La battaglia fu di poca rilevanza bellica, tuttavia di grande importanza politica, in quanto i fiorentini non persero la sovranità sulla loro terra (Machiavelli la ricorda con queste parole ironiche : “Ed in tanta rotta e in si lunga zuffa che durò dalle venti alle ventiquattro ore, non vi morì che un uomo, il quale non di ferite ne d’altro virtuoso colpo, ma caduto da cavallo e calpesto spirò”).

Poiché la battaglia consacrò Firenze a grande potenza egemone nell’Italia centrale, i Magistrati della città, e precisamente Pier Soderini, Gonfaloniere della Repubblica, nel 1503 assegnò a Leonardo da Vinci il compito di dipingerla in un grande affresco, su una delle pareti della Sala del Gran Consiglio di Palazzo Vecchio. Questa prestigiosa commessa diede a Leonardo la possibilità di sperimentare nuove tecniche pittoriche, che tuttavia si rivelarono fallimentari. Infatti il dipinto fin da subito risultò compromesso a causa di un complesso processo di essiccamento. Sebbene lo stesso Leonardo non volle terminare l’affresco, tuttavia esso fu conservato per alcuni anni e i suoi contemporanei poterono ammirarlo o, per lo meno, ammirarne i cartoni, se è vero che Rubens lo riprodusse nel dipinto oggi conservato al Louvre e Biagio di Antoio poté farne uno studio, che oggi è alla National Gallery of Ireland di Dublino.

A metà del 1500 i governo fiorentino decise un rinnovamento della grande sala e i dipinti esistenti furono rimpiazzati dall’opera del Vasari. A questo punto si persero le tracce dell’affresco, immaginando che l’opera fosse irrimediabilmente perduta, cancellata per fare posto alla nuova decorazione.

Ma l’ingegner Maurizio Seracini fondatore del CISA3 (Center of Interdisciplinary Science for Art, Architecture and Archaeology) dell’Università della California di San Diego, non la pensava così. E questo caparbio personaggio per trent’anni ha percorso una strada differente alla ricerca di tracce dell’antico affresco di Leonardo.  L’ingegnere, convinto che il dipinto (o parte di esso) debba trovarsi proprio nel luogo dove era stato destinato, ha compiuto nel corso degli anni una serie di delicati rilevamenti che sembrano dargli ragione. Raggiunto recentemente attraverso una sonda il muro sottostante al dipinto del Vasari, sono stati raccolti dei campioni interessanti. L’ulteriore analisi su un campione di colore nero ha rivelato la compatibilità di quest’ultimo con il colore nero utilizzato per la Gioconda e per il San Giovanni del Louvre.

Il mistero dunque continua e noi, assuefatti agli intrighi di Dan Brown, aspettiamo con ansia il risultato delle ricerche chiedendoci però, e anche un tantino preoccupati, se l’affresco perduto dovesse veramente trovarsi sotto il dipinto del Vasari, che si potrà fare?

Men power?

Secondo voi era davvero necessario istituire un ufficio per la tutela delle pari opportunità maschili?

Ebbene è quello che ha fatto La Direzione della Giustizia e degli Interni del Canton Zurigo, che mercoledì ha nominato il primo incaricato «alle questioni maschili in Svizzera», affermando così la volontà di concentrarsi sui problemi legati all’universo maschile con l’obiettivo di raggiungere una vera e definitiva parità fra uomini e donne.

Andy Capp © Creators syndicate Inc.
Andy Capp © Creators syndicate Inc.

A capo dell’ufficio ci sarà uno psicologo e sociologo impegnato in prima persona nella causa degli uomini e dei padri, promotore della «Festa dei padri svizzeri». L’ufficio nella persona di Markus Theuner, a partire dal primo luglio prossimo, dovrà occuparsi di ciò che può discriminare gli uomini e appianarlo. Si dedicherà in primo luogo alla battaglia intrapresa da quei giovani che vogliono dedicarsi a un lavoro per il quale vengono priviegiate le donne (scusate ma a me viene in mente ormai solo la ricamatrice…), ma anche ad aiutare tutti quei padri e mariti che sono in difficoltà nel concilire casa e lavoro.

Sacrosanto è sostenere i diritti di tutti quei papà che nelle cause di divorzio si vedono sottrarre i figli, che diventano spesso per la donna un arma di ricatto incredibilmente efficiente, e, per fortuna, associazioni che li tutelano sono nate un po’ dappertutto nel mondo, con risultati non sempre convincenti poiché si continua nella tendenza a privilegiare i diritti delle mamme.

Ma, ad esclusione dell’ultimo validissimo argomento, era proprio necessario creare un’istituzione ad hoc per la tutela delle pari opportunità maschili? Soprattutto in Svizzera dove, come in gran parte del mondo, il lavoro femminile a parità di livelli fatica ad essere retribuito nella stesso modo, le donne hanno avuto il diritto di votare solo nel 1971 e dove si percepisce, per carità nelle vecchie generazioni, un soffuso, ma neanche troppo, senso di superiorità maschile?

Per favore fatemi un piacere, fate un semplice esercizio e sostituite al termine  «maschile » il termine «femminile» in tutto questo post, otterrete così un perfetto manifesto feminista anni settanta…

On the road again…

Marzo ci offre l’occasione di ricordare il talento di un attore che in questo mese trent’anni fa, a causa dei suoi eccessi, perse prematuramente la vita a 33 anni, incapace di fronteggiare i propri fantasmi interiori.

Parliamo di John Belushi attore, cantante, comico di origine albanese, ma nato negli States.

Chi non ricorda Animal house, 1941 attacco a Hollywood o il capolavoro indiscusso The Blues Brothers? La pellicola è un film “on the road”, in cui i protagonisti, John Belushi e Dan Aykroyd attraversano l’America nel tentativo di rimettere insieme la vecchia band per racimolare il denaro necessario ad evitare la chiusura dell’orfanotrofio in cui sono cresciuti. Quasi un vero e proprio musical, la colonna sonora interpretata da grandi cantanti (Aretha Franklin, Ray Charles, James Brown fra gli altri) ancora ci accompagna sulle strade dei nostri viaggi.

Belushi è stato un grande comico, capace di intrattenere e divertire solo con un gesto. Gli bastava ammiccare in camera, ripetere frasi strampalate all’infinito per trasformare la situazione in un “cult”.

All’inizio degli anni ottanta contro una dilagante tendenza al “buonismo” di un certo cinema americano, la sua stella dissacratoria brillò sotto la guida di grandi registi. Belushi fu il ragazzaccio ribelle che mandava a gambe all’aria le convenzioni, colui che si faceva beffe di buon gusto e bon ton e che stroncava sul nascere il politically correct.

La critica cinematografica Emanuela Martini, a vent’anni dalla scomparsa del comico scriveva sul Sole 24 ore: “Belushi non sarebbe potuto nascere negli anni Novanta: troppo offensivo, troppo grasso, troppo disgustoso, troppo misogino, troppo brusco. Ma, forse, è come se non fosse mai morto (…) le sagome dei Blues Brothers sono un simbolo anche per i giovanissimi. Più amato di James Dean, che però era bello ed era “dannato”. Non basta essere vissuti in fretta ed essere morti giovani. È che Belushi aveva un’energia e una libertà che bastavano anche per le generazioni successive. Che forse è vero (come dicono i suoi compagni in Animal House) che la guerra è finita e l’hanno vinta gli altri (il rettore). Ma è anche vero, come urla Belushi, che la guerra finisce quando la facciamo finire noi, che sono ancora le risate a seppellire il mondo e a fare a pezzi la pellicola” (Il Sole 24 ore, 3 marzo 2002).

Abbiamo scelto una clip tratta dal film più rappresentativo del lato istrionico di Belushi The Blues Brothers, diretto da John Landis, quando finalmente i protagonisti dopo miglia e miglia di viaggio, dopo aver di nuovo riunito la mitica band finalmente approdano sul palco per la loro esibizione.

Il libro: il miglior amico dell’uomo

Oui au Livre, l’11 marzo prossimo la Legge Federale sul prezzo fisso dei libri (LPlib), adottata dal parlamento svizzero e contestata da un successivo referendum, sarà sottoposta a votazione popolare.

E scommetto che molti, impreparati e distratti come me, ascoltando la notizia alla radio o leggendola sui giornali abbiamo pensato “era ora che qualcuno ci pensasse, i libri costano sempre di più”.

Ma non è tutto qui!!

Se leggiamo con attenzione il testo della legge, infatti, ci rendiamo conto che essa non è stata pensata tanto per per “calmierare” in qualche modo il prezzo dei libri, quanto piuttosto per salvare  dalle fagocitanti grandi catene di distribuzione la piccola impresa, la libreria di paese, la romantica e un po’ sbiadita figura del libraio dedicato ai suoi volumi e al suo negozio.

La legge vuole disciplinare “il prezzo dei libri nuovi, privi di difetti, scritti in un lingua nazionale svizzera, editi, importati o commercializzati in Svizzera” (e attenzione solo dei libri, non sono presi in considerazione altri prodotti editoriali quali ad esempio i periodici), stabilendo che il prezzo finale del prodotto, compreso di imposta sul valore aggiunto, venga determinato dall’editore o dall’importatore e pubblicato prima dell’uscita del libro. Il Sorvegliante dei prezzi (M. Prix!) può proporre al Consiglio Federale di stabilire mediante un’ordinanza “le differenze massime di prezzo ammesse rispetto all’estero, tenuto conto delle regioni linguistiche” (piuttosto complicato, no?), ma niente di più. La legge poi recita: “i librai possono vendere i libri soltanto al prezzo fisso di vendita stabilito” come prezzo finale da editore o importatore.

Tutti coloro che avevano fantasticato allora su un tetto massimo al quale sarebbero stati venduti i volumi, ad esempio a seconda delle pagine, del peso, dell’edizione, delle fotografie o dei contenuti…, insomma i bibliofagi incalliti pronti a tutto pur di acquistare un nuovo volume, rimarranno delusi nell’apprendere che il termine prezzo fisso si riferisce alla durata del prezzo al quale viene venduto il libro (18 mesi) e alla possibilità di applicare a questo prezzo degli sconti, regolati ora per legge secondo una tabella precisissima (al dettaglio lo sconto potrà essere massimo del 5%) e impedendo dunque alla grande distribuzione di praticare gli usuali ribassi.

Lo scopo dichiarato è quello di “promuovere la varietà e la qualità del bene culturale libro e garantire che il maggior numero di lettori abbia accesso ai libri a condizioni ottimali” evitando che la piccola impresa, il libraio al quale ci si rivolge per l’edizione introvabile, per un consiglio o per una chiacchiera non scompaia definitivamente e diventi solo un bel ricordo.

Forse la legge è pensata affinché non ci perdiamo nei locali patinati e alfabeticamente ordinati delle grandi catene di librerie, tanto efficienti quanto asettiche, o piuttosto nelle pagine delle librerie elettroniche che disumanizzano ancor di più il prodotto.

Ma, secondo voi, questa legge sarà in grado di conservare integra la figura del libraio (o meglio resuscitarla) o, disperati per il costo dei volumi, ci getterà definitivamente in pasto a Internet, dove l’acquisto, si sa, sebbene ancor più disumanizzato è decisamente più economico?

L’anima sdoppiata di quelli in transito

Molti di voi, come me, approfittando della settimana di vacanza tradizionalmente dedicata allo sci, sono partiti per fare un saluto a casa.

Siamo tornati a “casa”… dopo un viaggio più o meno lungo, eccitati, contenti di riabbracciare i cari e gli amici.

Un sabato italiano, finalmente: un “giro” in centro, un cappuccino fumante (quello tiepido, con poca schiuma, come piace a Nanni Moretti), un aperitivo in piazza, sfogliando il giornale seduti all’aperto, mentre il sole di febbraio incomincia a scaldare.

Si parla con qualche amico ritrovato del più e del meno (lo sport, il tempo, la politica, la mazzata fiscale). In fine dopo un paio di “vasche” per negozi, si chiude la giornata con una pizza e una birra come Dio comanda (tirando un sospiro di sollievo guardando il conto)!

Tutto questo ci è mancato, più di quanto siamo disposti ad ammettere, in più ci accompagna quella specie di elettricità – un’eccitazione sottile – perché siamo a casa sì, e allo stesso tempo siamo in vacanza e non ci si deve preoccupare del lavoro, degli orari, delle difficoltà. Il sorriso si è installato sulle nostre labbra.

Ma per qualche particolare (la verdura dimenticata in frigo, un appuntamento da disdire) che all’inizio fa capolino distrattamente in un angolo remoto del nostro cervello, la mente ci strappa da questo stato di beatitudine e ci riporta alla nostra vita quotidiana altrove, in quell’altrove – a volte subìto a volte desiderato con forza – che ci rende comunque un po’ speciali agli occhi di tutti quelli rimasti a casa.

Lo spiraglio lasciato aperto da queste riflessioni leggere si spalanca e si reagisce quasi con rabbia al dilagare di pensieri altri che fanno parte della nostra vita altra.

La sensazione è quella di essere sdoppiati: una parte di noi è presente qui e una parte è rimasta lì.

L’impressione è quella di essere inadeguati ovunque, ormai fuori dalla routine quotidiana qui, e in cerca di nuove consuetudini là, rincorrendo qualcosa che non è più qui, ma che ci chiediamo, stupiti, se possa essere là.

Il desiderio di “ritornare a casa” quando si è all’estero è sempre fortissimo per quelli in transito, ma una volta a casa la sensazione di essere fuori posto, sbagliati, storti è sempre presente e si finisce per sentirsi turisti in un paese esotico, stranieri in casa propria e tutto sommato contenti di poter ripartire per quell’altrove che non è più un luogo fisico, ma che a lungo andare diventa un rifugio dell’anima.

Contaminazioni

Contaminazione. Un’altra bella parola che inevitabilmente irrompe nella vita di ogni persona “in transito”.

Contaminazione da contaminare, non col valore negativo sinonimo di contagiare, inquinare o sporcare, ma con il significato di incrocio, nel nostro caso, di vite e culture.

Gli esempi più calzanti sono in letteratura dove contaminazione  è la “fusione di elementi di diversa provenienza nella creazione di opere letterarie”; e in linguistica dove il termine designa un “incrocio di due forme o due costrutti, l’unione dei quali costituisce una nuova forma o un nuovo costrutto” .

Per noi che viviamo all’estero il termine contaminazione non si applica solo a meri esercizi linguistici o retorici, ma diventa pratica di quotidiano equilibrismo. Noi, che nella vita di tutti i giorni, dobbiamo interagire non solo attraverso lingue differenti, ma anche con differenti stili di vita e diversi modi di pensare, siamo diventati, spesso nostro malgrado, “maestri” della contaminazione. Usi, costumi, mentalità, specchio di altre tradizioni, entrano prepotentemente nelle nostre case e la necessità palese è quella di adeguarsi alle nuove situazioni, aprendo la mente e accogliendo per quanto siamo capaci le diversità, incrociando appunto la nostra vita a quella di altri che mai avremmo pensato o previsto di incontrare.

Per chi è rimasto in Italia, le cose non sono poi così diverse, si può affermare forse che è differente il modo di “contaminarsi”. Chi è a casa non è più attore della contaminazione, quanto piuttosto fruitore (se al termine diamo accezione positiva) o come dicono alcuni (i meno illuminati) la subisce.

Tutti però, sia chi è andato e sia chi è rimasto, arriviamo al punto dolente.

Oltre a fare il brunch la domenica invece del classico pranzone di italica memoria, oltre a mangiare volentieri il currywurst al posto della salsiccia della Festa dell’Unità,  saremo in grado di andare più a fondo e di trasformarci veramente  in cittadini del villaggio globale, pronti ad accettare le sfide vere che la contaminazione ci lancia (scontri di pensiero, di sensibilità, di visioni del mondo)? E chi è rimasto a casa e vive ormai in una società multirazziale saprà offrire, facendo leva sulla nostra tradizione di accoglienza millenaria, la possibilità di realizzare osmosi azzardate, in cui vecchio e nuovo si incrociano e creano un melange originale?

Queste sono le sfide alle quali ci dobbiamo preparare, tutti.

Per i viaggiatori in cerca di storie:la città diario di Pieve Santo Stefano

Se si pensa alla forma narrativa più consona al viaggiatore viene subito in mente di pensare al diario.  Pensiamo ai diari del Grand Tour scritti dai ricchi e giovani aristocratici che, dal XVII secolo, girano per la Francia, l’Italia e la Grecia, nell’intento di entrare in contatto con la cultura e l’arte di quei paesi. Dal 1786, per due anni, Johann Wolfang von Goethe viaggiò per l’Italia e i suoi appunti di diario divennero, successivamente la base per il suo romanzo epistolare, Italienische Reise (Viaggio in Italia).

Il diario è la memoria di ciò che è stato e di come lo abbiamo vissuto, è qualcosa di intimo: due occhi che hanno visto e che raccontano filtrando la realtà attraverso le proprie emozioni. I diari sono utili agli storici ma anche ai poeti. Ecco perché i diari sono un tesoro dell’umanità. E questo lo aveva ben chiaro il giornalista e scrittore Saverio Tutino fin da quando, nel 1984, propose all’allora sindaco di Pieve Santo Stefano di fondare nella città il primo archivio dei diari, per trasformare la cittadina toscana in un centro di raccolta della memoria italiana. Così è stato e Pieve Santo Stefano, da quell’anno, si è trasformata nella “città del Diario”: una banca della memoria  per la conservazione di testimonianze biografiche. Dall’archivio è  nato, fin da subito, il  Premio Pieve, un premio nazionale per diari inediti. Tra gli intellettuali che fin dal principio si appassionarono al progetto della Pieve, c’era Natalia Ginzburg che seguì il premio e firmò anche alcune prefazioni dei libri editi dall’Archivio.

Nel 1998 è nata anche una rivista semestrale, intitolata Primapersona. L’archivio successivamente viene messo su internet all’indirizzo www.archiviodiari.net.

Tra i diari più citati rimane quello spedito alla città il 1986 da Clelia Marchi, una contadina di Poggiorusco (Mantova) che in una notte ha deciso di cominciare a scrivere tutta la sua vita su un lenzuolo matrimoniale. Si trattava del lenzuolo della dote che, oggi, morto l’amato marito Anteo, non le serve più: “care persone fatene tesoro, di questo lenzuolo, che c’è un poco della vita mia; è mio marito; Clelia Marchi (anni72) ha scritto la storia della gente della sua terra, riempiendo un lenzuolo di scritte,dai lavori agricoli, agli affetti (…)” . Oggi si può leggere quel lenzuolo visitando l’Archivio  nel Palazzo Pretorio di quella curiosa cittadina.

La Cina è sempre più vicina?

Sull’edizione on line di 24 heures, il quotidiano romando, è apparso recentemente  un interessante articolo che annuncia l’apertura di nuove sedi dell’Istituto Confucio presso le Università di Zurigo e di Basilea, oltre a quello già esistente di Ginevra.

terra di mezzo
L'ideogramma che designa la Cina

Il nome richiama immediatamente memorie asiatiche e, in effetti, se si cerca sul web di cosa si tratta, compare una lunga lista di Istituti sparsi un po’ in tutto il mondo, creati in partnership fra Università occidentali e Governo Cinese (cioè finanziati sia dalle università ospitanti sia dal Governo Cinese).

Se poi si cerca di saperne un po’ di più, si approda inevitabilmente su Wikipedia e si scopre che si tratta di una pubblica istituzione “aligned with the Government of the People’s Republic of China” che promuove la lingua e la cultura cinese nel mondo, sostiene progetti e facilita scambi culturali.

Agendo come altri istituti culturali (Alliance française o Goethe-Institut) e utilizzando in qualche modo lo stesso modello, Pechino (cioè il governo centrale cinese) ha aperto 350 sedi in 150 differenti paesi in brevissimo tempo (dal 2004).

Alcuni studiosi pensano che il Governo centrale cinese abbia deciso di dare lustro all’immagine contemporanea della Cina, che possiede una cultura millenaria e affascinante ma le cui istituzioni politiche non incontrano le stesse simpatie…

È vero che si tratta di un restyling della propria immagine nella speranza di distogliere l’interesse dell’opinione pubblica internazionale dalle evidenti pecche soprattutto in materia di diritti umani?

La neve è l’artista di tutti

I nostri occhi quest’anno si sono abituati ai paesaggi innevati. Sia chi vive in Italia sia chi vive in Svizzera, non ha certamente perso l’occasione di commentare il freddo o lo stupore di fronte ad incredibili   visoni offerte dalla neve e dal ghiaccio.

La neve copre, nasconde. Tutto ciò che siamo abituati a vedere scompare e si presenta sotto un’altra forma. La neve è un’artista moderna: ci presenta una visione diversa della realtà quotidiana e riesce a trasportarci in un’altra dimensione. La neve è compagna, o forse senza saperlo è  ispiratrice di Christo che per tutta la vita ha cercato di regalarci  la realtà sotto forme diverse  grazie ad enormi quantità di tessuto, con le quali ha impacchettato territori, un ponti, palazzi. Colossale fu, nel 1995,  il grande impacchettamento del Reichstag di Berlino.

La neve è l’artista di tutti e non sarà un caso che i bambini, che sono da sempre i più attenti e sensibili nel comprendere l’arte contemporanea, sono anche coloro che sprizzano maggiormente di gioia nel vederla cadere.

Vagando in cerca di visioni che riguardano la neve, mi sono imbattuta in un bellissimo quadro, che si trova al Museo d’Orsay a Parigi . E’ un grande quadro, largo più di quattro metri,  dello svizzero Cuno Amiet (1868-1961), intitolato: Paesaggio di neve, detto anche Grande inverno. La tela è, appunto, un grande paesaggio di neve con tutti i toni del bianco, che sovrastano l’immagine di una piccola figura scura dello sciatore.

Forse l’artista non è  molto conosciuto;  fu allievo di Hodler e amico di Giovanni Giacometti e Giovanni Segantini e dipinse la tela nel 1902.