La fatica di vivere

A lungo mi sono chiesta se fosse il caso di pubblicare questo post e addentrarmi in una vera e propria «selva oscura», alla fine ho deciso di farlo, perché sono certa che in tanti, almeno una volta nella vita, ci siamo posti domande su questo argomento.

Fonte di ispirazione per queste riflessioni è stata la notizia, riportata e commentata da molti quotidiani svizzeri (quali Le Temps24 heures), che nel Canton Vaud, il 17 giugno prossimo, la popolazione sarà chiamata a votare una modifica della legge della Pubblica Sanità in materia di «assistenza al suicidio».

E sì, perché la Svizzera (pur vivendoci non ne ero a conoscenza, poiché come spesso accade per tutto ciò che riguarda l’ultimo viaggio, da brava italiana la prima reazione è sempre stata quella di «fare le corna» con, a seguire, la manifestazione del disinteresse più assoluto…) é il solo paese in cui l’assistenza al suicidio – per quelle persone che sono affette da malattie mortali, la cui speranza di vita é inesistente e ne fanno richiesta nel pieno delle loro facoltà mentali o attraverso il loro testamento biologico (qui accettato) – é legale, rigidamente codificata e regolamentata da leggi federali e cantonali.

Voglio assolutamente cercare di essere super partes e spero di riuscirci, perché il mio intento non è quello di esporre il mio punto di vista, quanto piuttosto di suscitare una serie di interrogativi, che mi sembrano legittimi.

Innanzitutto la legge: la costituzione vaudese riconosce a tutti il diritto di morire in modo dignitoso.

E queste poche parole sono state tradotte nella legge di Pubblica Sanità concedendo agli ospedali la possibilità di somministrare la dose letale a chi ne faccia richiesta. Ciò non a cuor leggero, si intende. Il processo, finora, è stato lungo e laborioso, coloro che richiedono la soluzione finale sono sottoposti a una lunga serie di esami clinici e di colloqui con psicologi e assistenti sociali, solo laddove si ravvisa la concreta impossibilità di avviare nuove cure contro un male incurabile, quando il soggetto è realmente senza speranza, solo allora come ho detto, lo si aiuta al trapasso per alleviarne le pene.

Esistono però associazioni che hanno iniziato a donare la «buona morte» anche a coloro che la richiedono a prescindere da una situazione di malattia terminale. Persone affette da una serie di malattie fisiche non mortali, ma che rendono l’esistenza impossibile: artrosi deformanti, problemi di mobilità, cecità, incontinenza. O ancora soggetti con i mali dell’anima come le depressioni acute, che hanno via via perso la gioia di vivere, che sono rimaste sole e non vedono altra via d’uscita. Tutti mali che si stratificano gli uni sugli altri e che sottopongono i pazienti ad una presunta e inutile fatica di vivere e all’impossibilità di portare avanti un’esistenza dignitosa. Condizioni queste che toccano soprattutto un particolare tipo di soggetti: gli anziani.

Sotto la spinta popolare di diverse associazioni di malati di questo tipo si è giunti al referendum del 17 giugno, in cui viene chiesto di cambiare la legge in vigore, dando la possibilità di porre fine alla propria esistenza attraverso le organizzazioni di assistenza al suicidio anche nelle istituzioni che noi chiameremmo «case di riposo» e che in Svizzera sono le EMS, senza dover attraversare la lunga e dolorosa trafila degli esami clinici che la legge prevede, anche da parte di persone la cui vita non è in pericolo immediato.

Le domande a livello morale, etico, religioso che affiorano sono talmente tante che è inutile qui farne una lista. Mi voglio limitare a suggerirne alcune, non necessariamente quelle “giuste” o condivisibili.

Innanzitutto è proprio vero che come ognuno ha il diritto di vivere come vuole, ha anche il diritto di porre fine alla propria esistenza, quasi ricorrendo poi ad uno stratagemma come quello del suicidio assistito?

Credo sia lecito chiedersi, insieme a B. Kiefer, capo redattore della rivista medico scientifica svizzera e membro della Commissione nazionale di etica, se « l’allargamento di questa zona grigia (fatta di pazienti non in pericolo di vita ma che non desiderano più vivere) non è forse fare il gioco di una società dove bellezza, giovinezza e performance sono divenuti i valori principali?». Non può significare l’anticamera di qualcosa di molto più grave come la cancellazione ad esempio degli errori di una natura che può essere insensibilmente matrigna?

E ancora: «prima di rispondere al desiderio di morte, non bisogna forse domandarsi se alcune di queste persone, debitamente aiutate (cosa che costa non solo in termini monetari), possano ritrovare un senso alla propria esistenza malgrado i problemi?».

E mi fermo qui… spero se ne riesca a parlare

A margine di tutto ciò… quanto è difficile parlare di morte e quanti eufemismi ho usato in queste poche righe (trapasso, buona morte, soluzione finale ecc.) per aggirare la parola morte, tout court, così dura, così inquietante, così definitiva.