Questo no, non puoi averlo. Devi arrenderti: è finita e devi ricominciare.
Eppure troppi uomini non ci riescono e, quando vengono lasciati, nella loro mente si sentono vittime di un’ingiustizia, sino a sviluppare un istinto criminale capace di rendere una donna vittima delle loro mani.
Karin Mack, Iron dream, 1975
Tu sei mia e solo mia, sembrano voler dire nella loro follia. Forse credono di vivere una passione amorosa da film, ma in verità cadono nell’orrore di un amore tanto malato da divenire assassino.
Questa volta è successo a Prato: lui era un calciatore, aveva il porto d’armi da un mese (chissà chi gli ha fatto la valutazione di attitudine per ottenerlo…), ha sparato alla ex fidanzata e poi si è ammazzato.
Questo NO non puoi averlo. Quante volte ci è stato detto? Ma non si dovrebbe cominciare da bambini ad apprendere a gestire la delusione dei no? perché ci sono uomini che non anno farlo? Chi doveva insegnarglielo? Sono domande che dobbiamo porci. Troppe donne ci rimettono. In verità anche una sarebbe troppo: ma qui sono una moltitudine.
Ieri si è svolto alla Camera, il dibattito relativo alla ratifica della Convenzione di Istanbul. Nonostante i tragici episodi degli ultimi giorni, che avrebbero dovuto invogliare i nostri rappresentanti al governo almeno a partecipare alla riunione, l’aula di Montecitorio è risultata tristemente vuota, a dimostrare che nonostante tanto parlare della violenza sulle donne, l’argomento, in fondo, interessa poco a tutti!
La Convenzione di Istanbul, firmata dagli stati membri dell’Unione Europea fin dal maggio del 2011 “è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza” e il suo cammino affinché si arrivi alla sua ratifica e alle leggi necessarie per la sua pratica applicazione in Italia pare ancora lento e lungo.
“L’Italia è presente e in buona posizione nella triste classifica dei femminicidi con una paurosa cadenza matematica, il massacro conta una vittima ogni due, tre giorni”, scrive Serena Dandini commentando il suo libro Ferite a morte. “Dietro le persiane chiuse delle case italiane si nasconde una sofferenza silenziosa e l’omicidio è solo la punta di un iceberg di un percorso di soprusi e dolore che risponde al nome di violenza domestica”.
Spesso l’atteggiamento delle vittime della violenza domestica è contraddittorio: donne che preferiscono “morire d’amore”, nella vana speranza che il loro “uomo aguzzino” possa cambiare per amor loro (chi non ha letto della candidata Miss Italia picchiata quasi a morte per gelosia e ora felicemente ricongiunta al suo compagno) piuttosto che denunciare; donne che non trovano la forza di chiudere relazioni impossibili convinte che non ci sia via d’uscita (spesso purtroppo giustizia e società non aiutano). Ma non è solo questo atteggiamento delle vittime che stende un velo di silenzio su queste vicende. La mia impressione è che nonostante il grande clamore, nonostante lo sdegno che suscita il “femminicidio” (termine orrendo, ma drammaticamente appropriato, proprio per la sua crudezza) l’atteggiamento generale è che di questa violenza dilagante e senza senso che coinvolge i più deboli della catena sociale, in fondo non se ne voglia realmente parlare. Il pensiero è “se non ne so niente il fatto non esiste” e si continua a vivere come se nulla fosse.
È necessario fare un passo avanti, cambiare radicalmente i costumi e gli atteggiamenti affinché questi tragici fatti non accadano mai più, dare voce a chi non ce l’ha e sostegno a chi è debole, cosa prevista dalla Convenzione di cui sopra, per lasciare alle nostre figlie, e non solo a loro, un mondo diverso in cui non essere considerate proprietà esclusive alla stregua di bambole di cera.