8 minuti e 46 secondi

8 minuti e 46 secondi è il tempo che George Floyd, afroamericano, arrestato a Powerderhorn, Minneapolis, il 25 maggio 2020, ha impiegato a morire. Mentre stava pagando un pacchetto di sigarette con una banconota da 20 dollari falsa, Floyd è stato fermato da una pattuglia della polizia, e gli agenti, con il massimo disprezzo della sua vita, hanno considerato adeguato al crimine contestato atterrare l’uomo e inchiodarlo al suolo con un ginocchio premuto sul collo. Floyd è morto mentre inutilmente sussurrava, “non riesco a respirare”, “mamma”, “non uccidermi”.

È “solo” l’omicidio di un altro nero disarmato nell’America “great again” di Donald Trump, dove secondo le statistiche le possibilità che un nero disarmato venga ucciso con violenza dalla polizia sono di molto superiori a quanto possa accadere a un bianco.

I “can’t breathe”, non riesco a respirare è diventato in breve il nuovo slogan usato da coloro che si sono riversati nelle piazze americane per manifestare contro il razzismo e la brutalità della polizia, e lo stesso slogan è stato stampato sulle mascherine anticoronavirus indossate da molti.

Ma la morte di Floyd è stata solo la scintilla che ha infiammato le piazze americane (e non solo), l’esplosione di un problema che non è recente, anzi, che vive nella contraddittorietà della società americana (e non solo), da sempre. Le lacerazioni razziali nel paese della cuccagna, come sono stati considerati per secoli gli USA, non sono mai state ricucite. Ovunque, nella nostra società, governi miopi, incapaci di pensare fuori dagli schemi, invece di risolvere il problema della color line, un altro modo “gentile” per denominare la discriminazione razziale, l’hanno esasperata scavando un vero e proprio fossato basato su stereotipi negativi, basato su una politica del “prima noi”, su un bieco populismo. Una discriminazione razziale strisciante che impregna tutti i livelli della società e tutte le istituzioni, irrisolta perché tocca una parte della popolazione fatta di invisibili sottopagati e sfruttati, dunque sacrificabili. Una discriminazione che è divenuta palese con l’esplodere della pandemia che ha mietuto la maggior parte delle vittime tra le minoranze etniche, più povere, disagiate e con minor accesso alla sanità. Quelle minoranze dei “ghetti” di tutto il mondo considerati un “fardello” della società .

Non si tratta di riscatto, ma di rispetto. Rispetto della vita tout court, rispetto delle persone in quanto tali, mi spingo a dire rispetto dell’anima di ciascuno di noi, racchiusa in un involucro che appunto è solo un involucro di non importa di quale colore.

A livello personale, ognuno con la propria piccola vita, cercando di tenere fuori la testa dall’acqua sembra difficile poter fare qualcosa. Ma questa è una scusa, sono i piccoli gesti che scavano solchi profondi. Intanto cominciamo a parlarne. Incominciamo una vera rivoluzione che parte dal linguaggio. Una rivoluzione che non ci faccia guardare l’altro con sospetto o peggio con disprezzo. Come scrive Tahar Ben Jelloun nel suo Il razzismo spiegato a mia figlia

Bisogna cominciare con il dare l’esempio e fare attenzione alle parole che si usano. Le parole sono pericolose. Certe vengono usate per ferire e umiliare, per alimentare la diffidenza e persino l’odio. Di altre viene distorto profondamente il significato per sostenere intenzioni di gerarchia e di discriminazione

La parola sostenuta da un pensiero forte ci aiuterà a sconfiggere le storture di questa società impazzita.