Her, Lei

Her Spike JonzeSpike Jonze il regista di Her, che domenica notte ha vinto l’Oscar come migliore sceneggiatura originale, voleva ottenere proprio questa reazione quando ha deciso di girare il film. Voleva suscitare nel pubblico una serie di sensazioni molto diverse fra loro, a seconda della sensibilità personale. C’è, infatti, chi ha trovato la pellicola romantica (in effetti è una love story), chi l’ha trovata inquietante, chi vi ha trovato una speranza e chi, come me, l’ha trovato di una tristezza cosmica.

La storia è al limite della banalità, un po’ claustrofobica, incentrata su una manciata di personaggi. Racconta di Joaquin Phoenix, uno scrittore di lettere d’amore “conto terzi” che, in una Los Angeles di un futuro molto vicino, s’innamora dell’intelligenza artificiale del suo sistema operativo.

Ne scaturisce un lungo colloquio inframmezzato da occasionali incontri con persone reali, che mano mano si rarefanno fino quasi a scomparire. Unico legame che lo scrittore conserva con la realtà è l’amicizia con una grande e dolcissima Amy Adams.

Tutto il film scorre con linearità culminando in una fine che non poteva essere diversa.

La mia reazione alla pellicola è fra quelle desiderate dal regista. Vi ho colto una quasi insostenibile tristezza. La tristezza di un uomo solo, incapace di comunicare con gli altri esseri umani se non attraverso un media (le lettere che scrive per gli altri, che lo rivelano dolce e romantico). Il sistema operativo che ha acquistato quasi per gioco lo coccola e lo asseconda in questa paura dell’altro, nella paura di mettersi in gioco, di essere empatico e in qualche modo, Samantha – questo il nome del sistema operativo – lo soccorre evitandogli di farsi del male, impedendogli di di rischiare i propri sentimenti invano. Dal canto suo il protagonista troverà infinitamente più semplice interagire con un’intelligenza artificiale, che lo apprezza per quel che è, che lo blandisce, che non complica le cose, che è capace di dare voce ad un sentimento, l’amore, che troppe volte è puramente fonte di profonda sofferenza. Ma come cresce il sentimento così cresce e si sviluppa anche il sistema operativo che via via si umanizza sempre più incominciando ad intuire i confini ristretti di quell’amore.

Her, è una vera e propria elegia della solitudine, tanto bello quanto disperatamente triste. Joaquin Phoenix nella parte dello scrittore è fenomenale, e la sensualissima voce del sistema operativo, che nella versione originale è quella di Scarlett Johansson (credo tuttavia che la voce scelta per la doppiaggio in italiano, quella di Micaela Ramazzotti, sia altrettanto voluttuosa), ci apre un universo etereo e irreale in cui poter facilmente cedere all’oblio e smettere di cercare relazioni umane.

La grande bellezza

La-Grande-Bellezza-la-critiqueÈ di ieri la notizia, che ci rende assolutamente orgogliosi, che l’ultimo film di Paolo Sorrentino, La grande bellezza, si è guadagnato il Golden Globe come miglior film straniero battendo la Palma d’oro a Cannes La vita di Adèle, l’iraniano Il passato, il danese The hunt, il giapponese di Miyazaki The wind rises.

Questa vittoria è il riconoscimento della vitalità del cinema italiano e spiana a Sorrentino la corsa verso l’Oscar (di cui gli auguriamo la vittoria non solo per questo suo ultimo sforzo, ma per l’intera sua filmografia).

Ho amato e odiato questa pellicola, recitata in modo supremo da un Tony Servillo in grande forma, attorniato da attori (Verdone e Ferilli per citarne due) eccezionali che, ognuno a proprio modo, hanno contribuito a creare un puzzle di situazioni e personaggi per lo più surreali.

Ero convinta che il film sarebbe piaciuto incredibilmente agli stranieri. Troppe, infatti, erano le atmosfere Felliniane e che si riferivano alla tradizione cinematografica classica italiana per lasciare indifferente la stampa, soprattutto anglosassone. Il Guardian inglese, in un articolo del settembre 2013 usava queste parole per introdurlo al suo pubblico: “Si tratta di un vero e proprio sovraccarico sensuale di ricchezza, stranezze e tristezza. Un film che sembra a volte dover svanire in un languore dissoluto, assaporando la propria noia come un tartufo. Ma più spesso da spazio al divertimento di una classe di ricchi uomini di mezza età, edonisti che sono capaci di farsi coinvolgere più dei giovani”.

Su tutto una Roma di una bellezza tragica, catturata dalla maestria del direttore della fotografia Luca Bigazzi, già con Sorrentino in altri capolavori quali, This must be tha place e Il Divo.

Ma, perché c’è un ma in tutto ciò, a noi italiani, forse il film lascia l’amaro in bocca. Si, perché la grande bellezza va a braccetto con una grande tristezza. Grande tristezza che ci trasmette l’occhio senza reticenze del regista, il quale mostra una Roma decadente, frivola, vuota di morale e di decenza. Una Roma dei palazzi del potere in cui tutto e tutti ammiccano e fingono, i cui tutto è permesso, in cui tutti appaiono ma non sono.

Il film è metafora del recente passato, è vero, ma ci auguriamo un riscatto nel prossimo futuro!