Green cake un progetto per la Palestina

Cosa lasciano le guerre in grande quantità? Rovine e ceneri, oltre naturalmente al carico di vite umane e di odio.

I paesi in rovina devono essere ricostruiti e un innovativo progetto, concepito da due donne ingegnere palestinesi, suggerisce come.

L’idea si chiama Green Cake e tende ad utilizzare la grande quantità di cenere reperibile ovunque non solo in Palestina, ma in tutti i paesi martoriati dalla guerra, per produrre mattoni.

I vantaggi di questa invenzione sono:

Lo stesso numero di mattoni coprirà una superficie superiore rispetto a quella coperta dai mattoni di argilla
I mattoni ottenuti sono resistenti al fuoco
A causa della elevata resistenza, non ci sarà praticamente nessuna rottura durante il trasporto e l’utilizzo.
A causa della dimensione uniforme dei mattoni malta e intonaco sono ridotti quasi del 50%.
Le infiltrazioni di acqua attraverso i mattoni sono considerevolmente ridotte.
L’intonaco può essere applicato direttamente su questi mattoni senza l’utilizzo della calce.
Questi mattoni non richiedono l’immersione in acqua per 24 ore, una spruzzata di acqua prima dell’uso è sufficiente e ciò riduce di molto non solo i tempi di lavorazione ma anche l’impatto ambientale.

Tutto ciò unito alla facile reperibilità dei materiali e al costo irrisorio di produzione dovrebbe facilitare di molto le fasi della ricostruzione.

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite nella striscia di Gaza, nel corso degli anni sono state distrutte o seriamente danneggiate più di 18000 abitazioni, lasciando senza casa oltre 108000 persone. Che sia giunto finalmente il momento della ricostruzione?

 

Not New Now

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Khalil Rabah Right and Right, 1999

Ci sono alcune cose che guardando dalla finestra di internet ti rallegrano, in questi giorni ad esempio si è aperta a Marrakech la sesta biennale d’arte contemporanea.

Gli aspetti più interessanti: la curatrice è una donna, Reem Fadda curatrice associata dal 2010  al Guggenheim di Abu Dhabi e impegnata da anni nel sostenere l’arte palestinese, fu presente  nel 2009 alla Biennale di Venezia con una iniziativa chiamata Ramallah Syndrome.

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Moham Mourabiti

La biennale, si legge, ha come obiettivo quello di far dialogare e mettere a confronto l’arte dei paesi occidentali con il mondo islamico e l’Africa. Come ogni evento che veramente voglia radicarsi e lasciare una traccia sul territorio nel programma sono previsti attività legate a favorire laboratori per i più giovani e residenze d’artisti per giovani marocchini.

La biennale quest’anno si intitola Not New Now e secondo la curatrice vuole essere una riflessione sul significato che assume oggi la parola novità. La novità non più legata ad un ideale positivo e di progresso ma qualcosa da leggere sotto diversi punti di vista, fino ad assumere il significato di  minaccia per il nostro pianeta. Un tema molto interessante e quanto mai attuale che avevo già incontrato nelle ultime biennali di  Lione (nel 1915 La vie moderne a cura di Ralph Rugoff).

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El Enatzui

A Marrakesh dunque un gruppo di artisti si confrontano sul tema. Il sito dell’esposizione è fatto molto bene e ci permette di vedere con chiarezza le opere presenti tra cui ricordo il trasformatore di materie povere e di scarto il ganese El Enatzui oppure la bravissima e tagliente Mona Hatoum .

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Mona Hatoum

L’italiano invitato è l’ architetto Alessandro Petti in coppia con Sandi Hilal che lavorano attorno al tema dei campi e degli spazi per i rifugiati entrambi vivono i Palestina.

Un appuntamento che sembra anticipare la più vecchia biennale dell’africa: la Biennale di Dakar che si aprirà invece il 3 maggio prossimo e che ormai è giunta alla sua 12 esima edizione.

Gli appassionati d’arte contemporanea dunque, devono volare in Africa se vogliono capire cosa sta succedendo e riflettere su come è cambiata la nostra percezione di ciò che siamo, delle nostre radici culturali e di cosa cambierà nel prossimo futuro nel panorama mondiale dell’arte.