Il 10 ottobre del 1963, 50 anni fa, l’Italia si svegliò accolta da una notizia terribile. Durante la notte un vasto pezzo di montagna, grande quanto una piccola città, era caduto dall’altezza di 400 metri nel bacino idrico creato dalla diga del Vajont, ai tempi un gioiello di ingegneria e la più azzardata e alta diga del mondo intero. La vicenda è risaputa, ingegneri e geologi non prestarono ascolto a chi in quella valle viveva da sempre e che sapeva quanto instabile poteva essere quell’angolo di Italia, minata da piccoli terremoti e smottamenti. La beffa è che la diga sopravvisse allo tzunami creato dal distacco della montagna, non altrettanto fece il paese a valle: Longarone.
Qui arrivò l’onda devastatrice che, si è calcolato, si abbatté sul paese con la forza della bomba che scoppiò ad Hiroshima, tanto che molte delle vittime furono trovate completamente nude, gli abiti strappati via dall’impeto dell’acqua. 1917 i morti, tutti seppelliti a Fortogna dove le lapidi per le vittime del Vajont sono tutte uguali per rispetto per coloro che non sono stati identificati (solo 700 di esse infatti recano un nome).
Tragedia immane, senza senso.
Oggi, come cinquant’anni fa, non è il giorno per cercare i colpevoli (storia tipicamente italiana), ma è il giorno del ricordo e della preghiera.
Per saperne di più pregevole è la disamina della tragedia fatta da Marco Paolini, a lui lasciamo il compito di spiegare e capire…