
Riassunto della settimana: ho visto un film al cinema “The Wolf of Wall Street”. Durata tre ore; dentro al film un quantità record di parolacce: sembra che la parola fuck sia stata usata ben 506 volte.
Ho trascorso qualche giorno in Italia durate i giorni delle risse in parlamento: oltre a spintoni e bagarre ho assistito a insulti sessisti rivolti ad una donna deputato da un altro eletto alla camera. La frase, oltre che oscena per il contenuto, era espressa in un modo terribilmente volgare.
Infine, parlando con un’amica di un problema familiare, sono stata più vote spiazzata dall’affermazione: “non me ne può fregare di meno”. Un’espressione brutta che non lascia via di scampo e ti fa scivolare addosso un sentimento di desolazione.
Niente moralismi a buon mercato, però, se guardo me stessa mi rendo conto di cadere molto più di prima nell’uso del turpiloquio. Se poi penso all’educazione da cui provengo – il modo di esprimersi dei miei nonni, ma anche quello dei mie genitori – mi stupisco di come sia potuto accadere.
E’ come se tutti noi in questi anni avessimo assistito a una liberalizzazione del turpiloquio. Così termini che non avremmo mai usato in pubblico ora non scandalizzano più nessuno. La verità è che la parolaccia si usa per ottenere un effetto immediato, per prevalere sul’altro in una discussione o al contrario per strappare un consenso o una risata tra amici. E’ facile; è un po’ come il fast food dei rapporti umani.
E’ cosi che l’espressione volgare si è trasformata in un virus, è veloce alla portata di tutti e non prevede grandi riflessioni o perdite di tempo. E’ paradossale ma mi domando se troveremo un vaccino che curi questa epidemia e arresti questo decadimento in cui sembriamo tutti coinvolti.