Cosa c’entra il memoriale della Shoa di Milano con l’emergenza immigrati? È un modo come un altro per placare la coscienza, un trend sociale o cosa altro?
La risposta è molto più profonda e risiede nella “necessità” di occuparsi attivamente del presente storico. Il Memoriale della Shoa, infatti, mettendo a disposizione – tramite la Fondazione connessa – non solo parte dei locali della Stazione Centrale di Milano, ma anche risorse e attenzione, ha fatto fronte al rischio più lampante che esso stesso poteva correre: il rimanere un monumento di se stesso che lentamente sbiadisce nel tempo e nel ricordo perché manca la forza di rendere attuale il messaggio proposto.
Sul sito del Memoriale leggiamo: “La memoria autentica scongiura la formazione di un vuoto alle nostre spalle. Attenua quella comprensibile tendenza alla rimozione del passato che toglie gradatamente senso agli avvenimenti, spingendoli nel pozzo della storia fino a confonderli con tanti altri. Il ricordo è un esercizio salutare: apre la mente e i cuori, ci fa guardare all’attualità con meno pregiudizi e minori ambiguità. Il ricordo è protezione dalle suggestioni ideologiche, dalle ondate di odio e sospetti” e ancora “La memoria è un dovere morale, un impegno civile. Se rituale è inutile. Se strumentale, persino pericolosa. Se scolora nella banalità allontana la percezione del dolore”.
Alla luce di ciò “accoglienza” diviene la parola d’ordine, accoglienza come antidoto per combattere le atrocità causate dall’indifferenza. E indifferenza è il termine che campeggia all’ingresso del Memoriale, quella stessa indifferenza che Milano, come mille altri luoghi, ha dimostrato girando il capo e distraendo l’attenzione nel momento di una delle più orribili tragedie del genere umano.
Il messaggio è forte e chiaro mai più indifferenza, insensibilità o disprezzo ma generosità, disponibilità e attenzione, ecco le parole che guariscono le ferite della storia. Per non dimenticare…