La pazza gioia, tenero, tragico, umanissimo film di Paolo Virzì che riscrive e riscatta una parola che troppe volte e in modo insensato è sulla bocca di tutti: pazzia. Uso e abuso di un termine che ha creato disumane catalogazioni in cui il malato si confonde, senza possibilità di scampo, con la malattia stessa. La pazza gioia ha vinto l’ambito David di Donatello 2017
«Io ho detto che non so che cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece questa società riconosce la follia come parte della ragione, e la riduce alla ragione nel momento in cui esiste una scienza che si incarica di eliminarla». L’intero film di Virzì si basa su parole come queste e sul pensiero filosofico e medico di Franco Basaglia, padre della legge che porta il suo nome e che si proponeva di riformare l’organizzazione dell’assistenza psichiatrica ospedaliera e territoriale.
Basaglia fu il primo in Italia portare avanti l’idea del tutto innovativa (siamo negli anni Settanta) che la follia non è malattia, e il folle è prima di tutto persona non un soggetto privo di dignità, da debellare, da evitare, da rinchiudere, da nascondere poiché incapace di adattarsi alla “normale” vita sociale.
Parte del film di Virzì (scritto per altro insieme alla Archibugi) si svolge all’interno di una comunità terapeutica dove vivono operatori sanitari e pazienti. Nella pellicola la malattia mentale viene trattata con equilibrio, diviene difficoltà “necessaria” ma allo stesso tempo umana, anzi umanissima.
Il film strappa il sorriso e qualche lacrima, ma è assolutamente da vedere, perché ci prende per mano e ci fa intendere pienamente la massima di Basaglia che recita: “la follia è diversità oppure aver paura della diversità”.
“Qualche” lacrima?? io non ne avevo più alla fine. Bellissimo film!!