“Uno scrittore scrupoloso, per ogni frase che compone, si porrà almeno quattro domande, e cioè: cosa sto cercando di dire? con quali parole posso esprimerlo? quali immagini o espressioni lo renderanno più chiaro? l’immagine che sto per utilizzare è abbastanza attuale per suscitare l’effetto desiderato? E poi probabilmente se ne porrà altre due: posso esprimermi più brevemente? ho scritto qualcosa di inutilmente brutto? Ma non si è obbligati a farsi tutti questi problemi, dato che li si può aggirare spalancando il cervello e lasciandovi ammucchiare dentro tutta la gamma di espressioni stereotipate. Esse costruiranno frasi al posto vostro, penseranno in qualche misura al posto vostro e vi renderanno l’importante servizio di nascondere, anche a voi stessi, il significato di ciò che state dicendo. È a questo punto che il particolare legame fra politica e degrado della lingua diviene chiaro… L’ortodossia di qualsivoglia colore pare richiedere uno stile smorto e imitativo. I gerghi politici… varieranno da partito a partito, ma saranno tutti somiglianti nel fatto che non contengono espressioni originali… Dalla laringe provengono i suoni giusti, ma il cervello non è coinvolto… e questo ridotto stato di consapevolezza, se non indispensabile, è in ogni caso favorevole al conformismo politico. Ai giorni nostri il discorso e la scrittura politica rappresentano ampiamente la difesa dell’indifendibile… È così che il linguaggio politico deve essere composto in gran parte da eufemismi, dimostrazioni scontate e nebulose imprecisioni”. E questo lo scriveva George Orwell nel 1946 nel saggio intitolato La politica e la lingua inglese. Sono passati oltre settanta anni e le cose non sono affatto cambiate, anzi se possibile i discorsi politici si sono caricati anche di astio, violenza e tanta ignoranza. Vado a dormire pensando che sotto questa montagna di bla bla siamo tutti rimasti sepolti vivi, chissà se avremo la forza o la voglia di liberarcene…
… e ancora bla bla!
