Venti di guerra

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1914, spettacolo di Robert Wilson

Spirano venti di guerra dalle nostre parti. Libia, Ucraina, Medio Oriente. Come sempre in questi casi i fautori dell’intervento e quelli che sostengono le ragioni del dialogo. Ma nessuno che parli di una cosa fondamentale: ogni guerra è in se stessa assurdamente crudele. In guerra pochi decidono della vita di molti e magari si sentono anche la coscienza a posto. I media parlano di intervento e si improvvisano esperti di cose militari, senza dire che l’unica certezza è la sofferenza più atroce per chi si ritrova, in una maniera o nell’altra, nei combattimenti.

1914, messa in scena , scenografia e luci di Robert Wilson
1914, messa in scena , scenografia e luci di Robert Wilson

Già durante e all’indomani della prima Guerra mondiale ne avevano parlato due scrittori diversissimi: Jaroslav Hasek e Karl Kraus. Ceco il primo, austriaco il secondo. Hasek era un umorista che prese ferocemente per i fondelli le gerarchie militari, assieme alla retorica della guerra giusta, nella celebre opera il Buon soldato Sc’veik. Kraus era un intellettuale e un polemista formidabile che si scagliò contro le menzogne del potere e della stampa di allora sulla guerra: non c’era niente di giusto in essa, solo orrore cieco e irrefrenabile.

1914, Robert Wilson
1914, messa in scena, scenografia e luci Robert Wilson

Avevano ragione questi due esseri inferociti: la prima guerra mondiale fu un’inutile carneficina.

Ce lo ha ricordato un magnifico spettacolo teatrale di Robert Wilson, prodotto l’anno scorso in occasione del centenario della prima guerra mondiale: si chiama 1914. E’ basato proprio sui lavori di questi scrittori. La parte di Hasek è burlesca e recitata in costumi e scenografie splendidi, con le assurdità geniali del soldato Sc’veik che ridicolizza ogni istituzione legata alla guerra; quella di Kraus è durissima, con una figura femminile che appare nerovestita sul palco e si muove come la Morte ne Il settimo sigillo di Bergman, recitando parole che riportano alla crudezza della realtà di ogni conflitto. A un certo punto il teatro è invaso da fumi di scena, con i personaggi che cantano e avanzano a ritmo di musica dal fondo della scena, indossando maschere antigas. Nello spettacolo le luci e le scene erano un’opera d’arte visiva,  e per certi versi  si provava la stessa emozione di vedere l’arte contemporanea fusa con l’arte del teatro. La prima dello spettacolo è stata presentata da pochi giorni al Festival Scenes d’Europe a Reims, indimenticabile. images

L’oblio e l’identità dei popoli

Minareto di AleppoVorremmo parlare brevemente e in modo differente dal solito della guerra civile in Siria. Il grido di dolore lanciato da Papa Francesco per fermare la strage, soprattutto dei i più piccoli (finora si stimano 8000 bambini morti), sovrasta ogni nostra possibile riflessione e da’ la misura della strage che si sta compiendo in quella terra. Neppure vogliamo prendere in considerazione le ragioni di una parte o dell’altra convinti che, comunque, una guerra con il carico di orrore che si trascina dietro non è mai giustificabile.

Vogliamo affrontare l’argomento da un altro punto di vista, infinitamente meno importante rispetto alla perdita di vite umane, ma che può far capire come, preso nella morsa degli eventi, un intero popolo possa dimenticare se stesso e la propria identità.

Identità che è scritta nella cultura, nell’arte, nei monumenti prodotti nei secoli che modellano le città e le rendono uniche. Cosa sremmo noi senza un Colosseo, senza una basilica di San’Ambrogio, senza una mole Antonelliana: infatti quel filo che ci unisce al passato e che ci rende unici senza di loro sarebbe irrimediabilmente reciso.

Purtroppo questo é ciò che sta accadendo in Siria. È di ieri la notizia che l’antico minareto della Grande Moschea Omayyade di Aleppo è stato distrutto. Simbolo di un’intera nazione, proclamato patrimonio dell’umanità dall’Unesco è stato abbattuto, forse per errore, il che rende ancora più tragico l’accaduto, come se non si trattasse di un pezzo della storia siriana, come se non appartenesse a quel popolo.

Sul sito dell’Unesco si legge che la città vecchia di Aleppo riflette le ricche e diverse culture che in essa si sono non solo sviluppate, ma susseguite. Resti che risalgono agli Ittiti, all’epoca ellenistica, romana, bizantina si mescolano con più recenti costruzioni arabe. La Grande Mosche fondata dagli Omayyadi nel 715 e ricostruita totalmente nel XII secolo, si trova in un fitto tessuto di suqs, khan e madrase (scuole coraniche) fra le quali la più famosa è quella che racchiude le vestigia dell’antica cattedrale cristiana di Aleppo: la madrasa Halawiye. Sulla moschea fino ad oggi svettava il minareto dei Mamelucchi, che era stato costruito nel 1090 ed era sopravvisuto a saccheggi e catastrofi naturali, con la sua forma sottile e le sue iscrizioni cufiche, splendido esempio di architettura araba.

Su tutto ciò ha prevalso l’oblio, l’odio di parte, un pezzo della storia siriana è stato cancellato e noi non possiamo fare altro che rammaricarci della perdita, ma ancora prima di questo, non possiamo che provare orrore e dolore per un popolo che ha perso se stesso e che, speriamo, possa presto riprendere a vivere.