La sala di lettura

Roberto Barni
Roberto Barni

Il Premio Strega va di pari passo con la storia del nostro Paese. Come si può leggere nel sito ufficiale: “i Premi Strega hanno raccontato il nostro Paese, documentandone la lingua, i cambiamenti, le tradizioni. In questi anni le scelte compiute dal Premio hanno contribuito a migliorare il rapporto degli italiani con i libri, incoraggiandoli a leggere sé stessi, la loro storia e il loro presente attraverso lo specchio della narrativa contemporanea”. La creazione del Premio risale al 1947, e l’intento di coloro che ne promossero la nascita, fu quello di aiutare un’Italia distrutta dalla follia della Seconda Guerra Mondiale.

premio-strega-2014Eppure questo pezzo di storia italiana da qualche tempo fa acqua dappertutto e viene criticato da molti scrittori e personaggi della cultura. Uno di loro Roberto Saviano con la franchezza che lo contraddistingue ha dichiarato polemicamente sulle colonne di Repubblica: “Allo Strega siamo affezionati perché fa parte della nostra storia, ma negli anni ha perso fascino, perché ormai è diventato un gioco sfacciatamente combinato… Finora si è imposta la regola “quest’anno vince il mio, l’anno prossimo vince il tuo” che sta mortificando i migliori talenti letterari italiani… Un’editoria in crisi non comprende che non è la vittoria di un premio benché prestigioso a dare nuovo lustro all’intero settore, ma la partecipazione che bisogna creare attorno ai libri”. Dunque la proposta di Saviano è quella di candidare un’outsider, uno scrittore fuori dal coro, una persona di cui non si conosce il volto, di cui non si sa neppure con certezza se si tratta di uomo o donna: Elena Ferrante. Le ragioni sono diverse la prima e la più importante è quella che la sua partecipazione “romperebbe gli equilibri di un gioco scontato”, portando una ventata d’aria fresca con il suo progetto letterario moderno nato ventitré anni fa, attraverso il libro, la carta stampata, le parole da lei scritte che non necessitano della presenza stessa dell’autrice, e questo basterebbe per Saviano a scatenare un dibattito, finalmente uno scambio di idee, quello che da’ il senso alla letteratura. Elena Ferrante ha accettato di concorrere al Premio Strega 2015 con L’amica geniale e rispondendo all’invito di Saviano nello stesso modo dalle colonne di Repubblica, non aspettandosi di vincere, né di arrivare nella cinquina finale e soprattutto senza presentarsi di persona afferma “È giusto e urgente, a volte, sparigliare le carte, ma le carte è ancora più giusto leggerle e farle leggere”.

Ancora Gomorra

Tv: 'Gomorra - La serie'; dal 6 maggio debutta su Sky Atlantic“Sono nato in terra di camorra, nel luogo con più morti ammazzati d’Europa, nel territorio dove la ferocia è annodata agli affari, dove niente ha valore se non genera potere. Dove tutto ha il sapore di una battaglia finale… In terra di camorra combattere i clan non è lotta di classe, affermazione del diritto, riappropriazione della cittadinanza. Non è presa di coscienza del proprio onore, la tutela del proprio orgoglio. È qualcosa di più essenziale, di ferocemente carnale. In terra di camorra conoscere i meccanismi d’affermazione dei clan, le loro cinetiche di estrazione, i loro investimenti significa capire come funziona il proprio tempo in ogni misura e non soltanto nel perimetro geografico della propria terra. Porsi contro i clan diviene una guerra per la sopravvivenza, come se l’esistenza stessa, il cibo che mangi, le labbra che baci, la musica che ascolti, le pagine che leggi non riuscissero a concederti il senso della vita, ma solo quello della sopravvivenza. E così conoscere non è più una traccia di impegno morale. Sapere, capire diviene necessità. L’unica possibile per considerarsi ancora uomini degni di respirare”.

Così si chiude Gomorra, il potente affresco che Roberto Saviano pubblicò nel 2006, presentando al mondo intero con una prosa secca, precisa e con immagini dure e sconvolgenti il “sistema” camorra. È da questo libro che nel 2008 è stato tratto il film intitolato Gomorra, diretto da Matteo Garrone anch’esso un capolavoro, freddo, crudele senza possibilità di redenzione, come il libro.

E poi sulla scia del successo ottenuto è nata anche la serie televisiva prodotta da Sky, Cattelaya e Fandango, con la regia di Stefano Sollima e la fotografia, fredda e graffiante di Paolo Carnera. La serie è già un mito. Venduta in 40 paesi è stata definita da Aldo Grasso “una corsa spettrale, livida, notturna, che spaventa e seduce, come fosse il racconto di una civiltà esausta, senza redenzione” dove “il male perde i contorni rassicuranti dell’estraneo e ne acquista di più familiari, quelli che ci appartengono”. 

La serie è girata e recitata con grande maestria e competenza (bravi gli attori, perfetti nei loro ruoli, quasi mitica nella sua ferocia la figura del boss Savastano), si intuisce la mano di Saviano che ha aiutato gli sceneggiatori a mostrare questa umanità decisamente perduta. Tuttavia la cosa più sconvolgente, perché è questo che mi ha colpito, è proprio il suo aspetto seducente di prodotto perfettamente confezionato, che ottiene ciò che promette. Guardando questa serie infatti (come guardando gli americani Dexter, o Breacking bad, in cui l’orrore fa da padrone) lo spettatore quasi si affeziona, quasi dimentica che si tratta di bestie feroci, diventa partecipe delle azioni dei protagonisti, fa il tifo per un cattivo piuttosto che per un altro. La televisione ci ha abituato a qualunque tipo di orrore, ed è forse questo allenamento continuo che fa perdere di vista allo spettatore la realtà brutale dei fatti. Ma non dimentichiamo una cosa fondamentale se nelle serie americane l’orrore è “solo” una rappresentazione, qui è la realtà che tragicamente viene messa in scena, ma la perfezione del prodotto ce lo fa dimenticare.

Una dichiarazione d’amore per l’Italia

girlfriend-in-a-comaFin dal titolo si intuisce che il film documentario scritto da Bill Emmott, ex direttore dell‘Economist e diretto dalla film-maker italiana Annalisa Piras non puó lasciare insensibili.
Girlfriend in a coma, che tradotto significa “la fidanzata in coma”, infatti, è due cose insieme: da una parte una profonda, entusiastica, struggente dichiarazione d’amore per il Bel Paese e dall’altra una crudissima, lucida, a tratti penosa denuncia del malcostume italiano.
Film decisamente scomodo, soprattutto prima delle elezioni politiche, tanto che la prima della pellicola, che doveva tenersi al MAXXI di Roma, é stata bloccata per volontà della presidente della fondazione del museo Giovanna Melandri, che ha motivato il gesto schermandosi dietro la par condicio che vige in questo periodo pre elettorale, ma che è stato bollato dalla stampa, soprattutto straniera, come un atto di “intellectual cowardice”, alla lettera codardia intellettuale.
Impietoso ritratto dei peccati di un’Italia, che, inutile negarlo, esiste, con le sue bassezze e le sue vigliaccherie, in balia di una classe politica corrotta e corruttrice che ha finito per soffocare quel “primato morale” che era la caratteristica principale degli italiani. Un vero e proprio collasso morale, che non ha eguale altrove nel mondo occidentale, scaturito da una crisi economica senza precedenti e aggravato da una classe politica che per decenni si è dimostrata più affezionata alla “poltrona” che al Paese. Eppure… eppure il film è anche uno spaccato sulle forze sane del paese, su quelle eccellenze che con difficoltà trovano spazio nelle cronache, su quella energia rinnovatrice che fa parte del DNA italiano.
Il film è realizzato come fosse un diario di viaggio tenuto da uno straniero che percorre l’Italia, l’ex direttore dell’Economist, appunto. Attraverso l’incontro e l’intervista di più di 50 personaggi italiani, Emmott trae le conclusioni sul male che ha colpito l’Italia. Gli intervistati sono nomi famosi che fanno parte dell’elite politica, culturale ed intellettuale del paese: da Mario Monti, a Carlo Petrini fondatore del movimento Slow food, a rappresentanti della cultura e dell’arte come Umberto Eco, Nanni Moretti e Roberto Saviano a personaggi del mondo economico quali Sergio Marchionne o Jhon Elkan. Tutti raccolti al capezzale della povera fidanzata in coma. Tutti sferzati da domande anche insolenti, ma che aprono scenari inquietanti. Lo stesso autore spiega “Temo che qui ci sia qualcosa per offendere tutti. Diamo uno sguardo alla corruzione istituzionalizzata del Paese, al crimine organizzato, al sistema politico cleptocratico e all’influenza perniciosa della Chiesa”. E di sicuro non risparmia nessuno.
Non nego che è stato difficile arrivare alla fine del film. Ho veramente provato un senso di malessere di fronte a verità per troppo tempo nascoste e ad italici atteggiamenti che non ci fanno onore.
La parte finale della pellicola poi comprende una serie di interviste a persone che hanno per scelta o necessità lasciato l’Italia.
E qui, da italiana, per di più residente all’estero, mi sono dovuta porre una serie di domande su atteggiamenti che sono anche i miei. Tutti gli intervistati infatti si proclamavano disperati per essere lontani dalla patria, ma allo steso tempo affermavano che così come stanno le cose di tornare non se ne parla. Tutti auspicavano un cambiamento, tutti si sono riempiti la bocca di “se si cambia siamo i primi a tornare” ed è proprio qui l’inghippo… Ma se i cambiamenti non contribuiamo a farli anche noi da lontano non solamente divenendo esempi di quelle virtù italiche che in patria non sono più apprezzate, ma in prima persona concorrendo al dibattito sul cambiamento, non è la nostra una forma di vigliaccheria che ci condurrà a veder morire la fidanzata in coma?
Da vedere per riflettere e agire…