Grant Wood e le bucoliche americane

Con il termine “Americana” in inglese si definisce tutto ciò che è legato alla storia, alla geografia, al folklore o al patrimonio culturale degli Stati Uniti. Che si tratti di manufatti e dunque di cose materiali o immateriali – quali l’identità nazionale, il contesto storico, il patriottismo o la nostalgia, le credenze o gli ideali guida e lo stesso “American Dream” – tutto gioca un ruolo importante a definire il concetto di Americana.

Icona di questa quasi inafferrabile idea è il lavoro di un artista statunitense che divenne famoso negli anni ’30 e al quale è stata a torto attribuita una riduttiva “Regionalist Vision”.  L’artista è Grant Wood al quale il Whitney Museum of American Art dedica la più completa retrospettiva mai organizzata finora: Grant Wood: American Gothic and Other Fables. Attraverso i suoi primi oggetti decorativi e gli oli impressionisti passando tra i suoi dipinti maturi, i murales e le illustrazioni di libri, la mostra rivela un artista complesso e sofisticato la cui immagine di contadino-pittore era mitica come le favole che dipingeva nella sua arte. Grant Wood cercò di modellare attraverso la pittura un mondo di armonia e prosperità che doveva rispondere al bisogno di rassicurazione dell’America in un momento di rivolte economiche e sociali causate dalla Depressione e più tardi dalla Seconda Guerra Mondiale.

Sotto l’aspetto apertamente e forzatamente bucolico, la sua arte riflette l’ansia di essere un artista e un omosessuale nel Midwest negli anni ’30. Raffigurando le sue ansie subconsce attraverso le immagini populiste dell’America rurale, Wood realizza immagini che parlano sia dell’identità americana sia dell’estraniazione e dell’isolamento della vita moderna.

Le curatrici delle mostra sperano di rivelare oltre alla complessità intrinseca dell’opera di Wood, finora negata, anche la rilevanza che essa acquista nell’attuale clima politico della nazione. Negli anni ’30, infatti, erano già presenti quei temi scottanti trattati dall’artista che dividevano e alimentavano la conflittualità della società Americana e che sono ancora oggi quanto mai ricorrenti e roventi.

Gangnam style 2… la vendetta

Anish KapoorAnche Anish Kapoor si è messo in gioco… è sceso infatti in campo per ribadire la necessità che l’espressione artistica rimanga libera da ogni tipo di legame sia esso politico, sociale o economico. Sulla scia del filmato postato su You tube da Ai Weiwei, che ha fatto infuriare le autorità cinesi, Anish Kapoor insieme ad un nutritissimo gruppo di esponenti dell’arte e della cultura mondiale si è esibito nella stessa danza sfoggiando anch’egli una giacca rosa confetto e e occhiali da sole scuri.

Hanno aderito all’iniziativa MoMA, Guggenheim, New Museum, Brooklyn Museum e il Whitney Museum of American Art di New York; l’ Hirshhorn Museum and Sculpture Garden di Washington; il Philadelphia Museum of Art; il Museum of Contemporary Art di San Diego; personalità quali Helen Bamber; Hanif Kurieshi, artisti come Mark Wallinger, Bob e Roberta Smith e Tom Phillips, ballerini del calibro di  Tamara Rojo e Deborah Bull.

Anish Kapoor ha ricevuto il plauso di altri grandi dell’arte, prima fra tutti Marina Abramovich, la quale non estranea al gusto della provocazione, ha sostenuto la performance di Kapoor.

L’ambientazione e il balletto sono molto semplici ma ricchi di simboli e metafore a partire dalla immancabile presenza delle manette (già usate da Ai Weiwei), dalle maschere che riproducono l’artista cinese, dalle scritte sul muro alle spalle dei ballerini che riportano il nome di molti artisti che negli anni hanno subito ingiustizie ed intimidazioni (fra gli altri compare anche il nostro Saviano e le Pussy Riot) fino al gesto di contestazione tipico dei piccoli che manifestano il dissenso: battere i pugni sul muro.

Nel bel mezzo del filmato compare chiara la scritta: “End Repression, Allow Expression” che diventa la frase simbolo riassuntiva di tutta l’operazione. Che dire? Noi stiamo con lui!