Questo è quello che afferma Llewyn Davis il personaggio protagonista di A proposito di Davis, il nuovo film dei fratelli Coen, da qualche giorno nelle sale cinematografiche. I fratelli Coen ci hanno già regalato grandi capolavori quali Il grande Lebowski o Non è un paese per vecchi. Questa loro ultima fatica si è già guadagnata a Cannes nel 2013 il Grand Prix Speciale della Giuria, quello che per intenderci viene assegnato all’opera che dimostra più originalità e spirito di ricerca.
Non mi dilungherò molto nel raccontare la vicenda del film, riassumibile brevemente in una settimana della vita di Llewyn Davis, cantante folk di talento, vessato dalla sfortuna e incapace di interagire con i suoi simili, con un passato tragico e accompagnato da un gatto che alla fine si scoprirà chiamarsi Ulisse come l’eroe omerico.
Grande esempio di cinema, che ha raccolto in giro per il mondo critiche entusiastiche. A partire dal New York Times che lo definisce: “un’Odissea melanconica attraverso la scena del Folk” il prototipo dei fratelli Coen “vale a dire un covo di surrealismo, nostalgia e cultura pop. Per dirla in un altro modo, è un racconto popolare”. La critica francese su le Monde lo promuove senza riserve: “I fratelli Coen hanno sempre oscillato tra una vena sarcastica e una vena malinconica, spesso mescolando le due cose. I loro film migliori sono quelli dove domina la seconda. Come in A proposito di Davis, che è probabilmente il miglior film che abbiano mai girato”. In Italia l’anteprima è stata giudicata da Porro del Corriere della sera come “un incantesimo del passato e, nonostante sia il racconto di un’esperienza personale e patimenti intimi, diventa quasi epico appena si mette al finestrino a guardare quel mondo assurdo che è la società dello spettacolo vista nel suo nascere”.
Ho visto il film, un gran bel film certo ricco di una disperata poesia, ma l’ho trovato irrisolto, forse troppo intimista comunque assolutamente privo di quell’umor nero che tanto viene celebrato a proposito dei Coen. E non interviene a salvarlo neanche la bizzarra fine con la quale forse i registi volevano significare il loop infinito nel quale si trova il protagonista. Quanto alla musica è favoloso e gli interpreti eccezionali, ma per essere un film sulla musica l’ho trovato stranamente privo di musicalità. Mi sento dunque di concordare con il critico dell’Observer inglese, Mark Kermode, il quale afferma tranchant: “Il film è troppo pretenzioso, come una canzone che non ha il ritornello all’altezza delle strofe. Forse, come molti album inizialmente impenetrabili, ha bisogno di essere visto più volte. Ma neanche la seconda finora ha trasformato la mia ammirazione in amore”.
Comunque, la pellicola è da vedere perché rende vivido uno spaccato della società americana e per l’amore con il quale i fratelli Coen trattano la materia, la canzone Folk nei primi anni sessanta, un’epoca in cui ancora non si era affacciato sulle scene Bob Dylan che l’avrebbe rivoluzionata per sempre.
In ultimo una nota di merito non solo per l’attore protagonista Oscar Isaac, un credibilissimo cantante folk, ma anche per il resto del cast veramente eccezionale Carey Mulligan, Justin Timberlake, Murray Abraham, John Goodman e tanti altri che con le loro interpretazioni rendono la pellicola indimenticabile.