Nella nostra sala di lettura ognuno può esprimere la propria opinione. Finora ho sempre parlato di libri che ho amato, che mi sono piaciuti oppure che mi sono interessati. Oggi invece mi trovo ad esprimere un giudizio che mi vede decisamente controcorrente rispetto non solo alla critica ufficiale, ma anche al pensare comune.
È necessaria una breve introduzione. Confesso che ho incominciato a leggere L’amore molesto di Elena Ferrante solo dopo aver scoperto che all’estero era diventata lei stessa un “caso” editoriale ancor prima che la sua opera venisse conosciuta e apprezzata. Infatti ciò che ancor prima dei suoi romanzi ha affascinato i lettori anglosassoni è stato il mistero che avvolge la sua identità. Pare infatti che americani e inglesi abbiano sviluppato la “Ferrante Fever” a partire dal “mysterious power of Elena Ferrante”, come lo ha definito il New Yorker: chi sia, se sia uomo o donna, se si tratti di un personaggio noto che si nasconde dietro pseudonimo, che celarsi al pubblico sia una sottigliezza mediatica, una furberia birbona o una paura da sociopatico, nessuno lo sa. E in un ambiente come quello dell’editoria in cui il presenzialismo mediatico gioca ormai un ruolo importante per l’affermazione di un autore, il mistero che avvolge questa figura, che concede interviste non solo con l’intercessione della sua casa editrice, ma soprattutto solo attraverso e-mail, ha dello straordinario.
Ma passiamo al libro, il primo ad essere pubblicato della scrittrice (per comodità mi riferirò a lei come se fosse sicuro si tratti di una donna) scritto più di vent’anni fa nel 1992, che narra la vicenda di una figlia che torna nella città in cui è cresciuta, per il funerale della madre, morta suicida in circostanze misteriose. La città in questione è Napoli declinata nel peggiore dei modi: una città caotica, villana, appiccicaticcia, in cui anche il tempo non è clemente e il mare pare “carta velina violacea fissata su una parete sbrecciata”. Una città vista dagli occhi di una donna che qui ha sofferto, e molto, non per il solito amore sbagliato giovanile, ma proprio a causa del profondo e, in un certo senso malato, amore per sua madre. La vicenda si dipana fra passato e presente fra sogno e realtà nel tentativo di ricostruire un puzzle che la memoria non vuole affatto ricomporre, per dare senso a una morte che, nonostante le affermazioni e l’atteggiamento della protagonista, pesa sul cuore come un macigno.
Il libro è scritto bene, si legge tutto d’un fiato eppure… eppure non sono riuscita ad apprezzarlo! Una vicenda troppo sfuggente, un’ambientazione disturbante, una protagonista sempre in bilico fra la paura e il desiderio di sapere e di ricordare ciò che ha destabilizzato la sua intera esistenza. Figura volutamente scostante Delia è in bilico anche fra amore e fastidio nei confronti di una madre irresoluta e un padre violento. Un libro di segreti inconfessabili e amore incompreso, comunque da leggere.
Siete pronti per discutere con noi Il giuoco delle perle di vetro, di Hermann Hesse? L’11 dicembre si avvicina, mancano poche settimane, dunque coraggio! Mettetevi all’opera.