Baraccopoli, bidonvilles, slums. Tutte parole che indicano un’unica realtà: quella di un buon 30% dell’umanità che vive in alloggi precari, fatti con materiali di fortuna, senza accesso ad acqua potabile, servizi igienici, fognature e così via.
Talora sono enormi: ospitano fino al 60% della popolazione di alcuni grandi agglomerati urbani in certi paesi africani. Mostri che sono il risultato di tanti fallimenti legati alle politiche sociali, alla pianificazione urbana, al modello di sviluppo economico adottato e così via. Non voglio parlare qui delle ragioni che hanno favorito il crearsi degli slum (il miglior libro da leggere, se siete interessati a questo argomento, rimane quello scritto anni orsono da Mike Davis: Planet of Slums, pubblicato da Verso nel 2006).
Vi voglio invece parlare di cosa ha pensato un architetto cileno, Alejandro Aravena,vincitore quest’ anno del premio Pritzker (da tanti chiamato il Nobel per l’architettura), per migliorare la situazione abitativa degli abitanti di alcuni slum nel suo paese. Aravena è partito dal fatto che mancano oggi case decenti per almeno un miliardo di persone e che il ruolo dell’architetto è quello di contribuire alla soluzione dei problemi sociali del nostro tempo. Aravena pensa che le Università non mettano gli studenti di architettura in grado di affrontare problemi come quello delle baraccopoli e delle loro unità abitative di base.

Se ne è uscito con un’idea: quella della mezza casa decente, ossia un’unità larga quanto una casa monofamiliare di base, ma riempita solo a metà. Tetto, fondamenta e infrastrutture sono completi, ma solamente un paio di stanze sono finite. Ciò consente di cominciare a offire un riparo decente, con mezzi ridottissimi e, al tempo stesso, consente ai proprietari di completare la casa coi propri mezzi, investendo in materiali durabili, poco più di ciò che metterebbero comunque nell’acquistare materiali per una casa precaria (il che è reso possibile dal lavoro di base – tetto etc. – già compiuto e finito).
Nel quartiere disagiato della Quinta Monroy a Iquique, nel nord del Cile, nel 2004, ha costruito 93 alloggi col budget previsto per farne 30 completi. Fare di più con ciò che si ha a disposizione; abituarsi a lavorare in condizioni di scarsità: questa è la filosofia di Aravena, che implica anche una grande pulizia mentale nella fase di progettazione. Del resto, lui ritiene – in linea con la sociologia del nostro tempo – che le diseguaglianze siano anche frutto di fattori culturali e che il ruolo della pianificazione e della gestione urbana sia fondamentale per eliminarle.

Aravena ha costruito 2500 alloggi sino ad oggi. Va detto che si è anche attirato delle critiche per la gestione dei suoi progetti, che hanno prodotto le case ma non sono stati completati da un lavoro di miglioramento urbano necessario per un habitat salutare: così oggi nella Quinta Monroy si trovano le sue case inserite in spazi pubblici insalubri e sporchi. Una critica più forte è poi venuta dal fatto che Aravena ha legato i suoi progetti a un grande gruppo di costruttori cileni, che così hanno avuto accesso a zone ove non ne avrebbero avuto alcuno, e che il supervisore e coordinatore nazionale cileno per la ricostruzione urbana – quindi il “controllore” del suo lavoro – è un membro fondatore del suo studio di architetto (riportato dal numero di questo mese di: Le Monde Diplomatique).
La critica più radicale è contro la sua filosofia: rischia, invece di favorire la redistribuzione di ricchezza a favore dei più svantaggiati, di lasciare le risorse in loro possesso immutate, facendo di meno con quello che hanno.
Tutte critiche che possono essere giuste. Ma un punto rimane: nessuna disciplina professionale può ormai esimersi dal confrontarsi coi problemi del mondo di oggi. La sfida è quella della sostenibilità e vale per tutti. Anche per gli architetti e per chi gestisce le città. E un mondo col 30% della gente che vive nelle baraccopoli è tutto fuor che sostenibile. Magari dal lavoro di Aravena si può prendere spunto per fare meglio in materia di sviluppo urbano. E non mi sembra poco.
E’ come dici tu , un tentativo , almeno!