
Il 26 aprile 1986 all’1 e 23, in un luogo sconosciuto al mondo, a 3 chilometri dalla città di Prypiat e 16 da quella di Chernobyl, in Ucraina, si produsse nel reattore n. 4, presso la centrale intitolata a Lenin, il peggior disastro nucleare della storia dell’umanità.
Un disastro negato dalle autorità di allora, che, si stima, essere costato la vita, nel giro di trent’anni, a un milione e seicentomila persone (mentre ufficialmente si parla di 200 persone decedute subito dopo l’esplosione). Il reattore nucleare prese fuoco per un difetto di raffreddamento e la temperatura delle sostanze radioattive contenute al suo interno aumentò fino a provocare un incendio che espulse nell’aria per alcuni giorni fiamme e fumi radioattivi, che, non solo, ricaddero sul suolo circostante, ma che per il gioco dei venti furono trasportati in gran parte d’Europa, raggiungendo addirittura il Giappone.
Quel giorno “cambiò il mondo. Cambiò il nemico. La morte ebbe facce nuove che non conoscevamo ancora. Non si vedeva, la morte, non si toccava, non aveva odore. Mancavano persino le parole, per raccontare della gente che aveva paura dell’acqua, della terra, dei fiori, degli alberi. Le cose erano le stesse – i fiori avevano la solita forma, il solito odore – eppure potevano uccidere. Il mondo era il solito, e non era più lo stesso. Lo strato superiore di chilometri di terra infetta venne divelto e sotterrato in sarcofagi di cemento. La terra venne sepolta dalla terra…” (Preghiera per Chernobyl, di Svetlana Aleksievič, Premio nobel per la letteratura 2015).
Oggi attorno alla centrale, nei trenta chilometri in cui ogni attività umana è bandita per sempre, la natura si è ripresa quello che l’uomo aveva addomesticato. Città e villaggi cancellati per sempre dalle mappe, sono addirittura divenuti meta turistica, e il disastro di allora si è tramutato per moltissimi in un’opportunità di lavoro unica.
Infatti attorno alla centrale, a dispetto della pericolosità e delle radiazioni, il lavoro non si è mai fermato ed oggi sono in migliaia fra operai, poliziotti e tecnici specializzati coloro che ogni giorno, con un convoglio speciale pagato dal governo, si recano al lavoro all’ombra del reattore n. 4. Poco importa se secondo stime, sempre non ufficiali, l’85% delle persone che abitano attorno all’area contaminata si è ammalata e il 90% dei bambini soffra di patologie alla tiroide, problemi al cuore o all’apparato digestivo.
Ancora oggi come allora tutto gira attorno all’economia. Se dunque allora furono nascosti e insabbiati gli effetti catastrofici del disastro, oggi si tende a minimizzarne i pericoli e c’è chi sogna, soprattutto fra i più giovani, la creazione di resort di lusso che attirino un turismo alimentato dal piacere voyeristico di calarsi nella tragedia di trent’anni fa.
Sembra quasi che quell’incidente non abbia insegnato nulla, anzi in un paese come l’Ucraina devastato da guerra, crisi economica e politica, Cernobyl si è tramutata nella speranza di una pioggia di denaro, che in molti si aspettano.
Noi, qui invece, a trent’anni dal quel 26 aprile 1986, vogliamo ricordare i martiri di Chernobyl, quelle centinaia di persone che hanno pagato con la vita il primo intervento alla centrale, un primo intervento che impedì che quantità maggiori di polveri e gas radioattivi si riversassero in tutta Europa.