L’opera dimenticata

Jannis Kounellis, uno dei maggiori rappresentanti della cosiddetta Arte Povera, si è spento a Roma a 81 anni. Vera protagonista di tutta la sua opera è stata nel corso degli anni la “materia”. “L’uso della iuta, delle pietre, del legno, del carbone, ma anche il ricorso agli animali vivi – celebri i cavalli in mostra da Sargentini a Roma nel 1969 …– hanno contribuito a veicolare una riflessione via via più composita sul legame tra mondo naturale e sovrastrutture culturali e sulla necessità di attivazione dell’opera da parte del pubblico”. (Artribune 16.02.2017).
In questa sua poetica si inscrive un’opera che possiamo definire dimenticata. “È un manufatto di arte povera caratteristico dello stile di Kounellis e concepito in sintonia con l’orientamento della commissione liturgica diocesana (di Reggio Emilia, ndr), che voleva adeguare l’interno della Cattedrale allo spirito del concilio ecumenico Vaticano secondo. Perciò l’autore l’aveva pensato come una sorta di zattera rappresentativa della Chiesa che sfida le tempeste. La base è composta di antiche travi lignee che sorreggono la seduta vescovile in ferro, affiancata da altre due sedute, una per il presidente non vescovo e l’altra per un diacono o assistente. La sua collocazione fra la navata e il presbiterio, a metà strada fra l’altare e l’ambone, sottolineava la subordinazione del Vescovo alla parola di Dio” (Gazzetta di Reggio, 19.02.2017). Abbiamo detto dimenticata, ma forse sarebbe più corretto dire relegata in un deposito poiché esponenti del clero ed intellettuali avevano bollato l’opera come incompatibile con il contesto architettonico e artistico del luogo in cui era stata posizionata.
Oggi, con la scomparsa dell’autore, è forse arrivato il momento di bandire ogni dubbio e sperare di poterla rivedere nella sua collocazione, risorta dal buio al quale era stata destinata.

 

Arte e vita – Arte che vive

Pierre Huyghe, Zoodram, 2004
Pierre Huyghe, Zoodram, 2004

Non sarà difficile per chi ama frequentare l’arte del XX secolo trovare una relazione stretta tra arte e vita. Far coincidere arte e vita è stato uno dei temi centrali del secolo scorso; gli artisti nel tempo lo hanno praticato in modo diverso cominciando dal en plein air degli impressionisti, per passare poi ai collage di Picasso e al colore sgocciolato di Pollock e arrivare fino agli happening di Fluxus, magari passando dall’orinatoio di Duchamp.   C’è un momento, però, nella storia dell’arte della seconda metà del XX secolo, in cui l’arte non coincide veramente con la vita, ma l’artista è interessato a dare vita all’opera d’arte. Mi spiego meglio: dagli anni Sessanta si assiste alla ricerca di una forma d’arte che sia essa stessa vita . Per me questo è il significato profondo dell’arte povera, una forma di arte che quasi promanava dall’energia della materia e che esprimeva la sostanza delle cose.

Interesse per le cose viventi, rendere l’opera d’arte un organismo vivente che viva la mutazione e il cambiamento: questo senz’altro è il lavoro dell’artista francese Pierre Huyghe che in questo momento ha una retrospettiva al Centre Pompidou a Parigi.

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Pierre Huyghe, Untitled, 2011

Egli esplora l’arte e le sue leggi, i segni del tempo e  i cambiamenti biologici delle cose. Chi infatti potrà visitare la sua mostra vedrà come il suo lavoro  è fatto di tanti materiali e tecniche diverse: ciò che cerca è lo stato in cui un’opera diventa un organismo in continua metamorfosi e cambiamento, quasi un mondo che si autogenera e varia nel tempo e nello spazio, indipendentemente dalla presenza degli spettatori. Colpisce ad esempio A Way in Untilled, una scultura di una donna sdraiata  con la testa coperta da un alveare di api.  La statua è diventata il luogo per le api, che si sono appropriate della forma e che ora vivono dentro essa. Oppure il lavoro Zoodram, acquari dove vivono invertebrati e ragni marini che l’artista ha scelto per i loro comportamenti e per le loro forme. Dentro gli acquari convivono con paesaggi insoliti: teste di muse, forme surreali di architetture. In mostra potrete anche imbattervi in un cane bianco con una zampa rosa . Si legge nel depliant della mostra: “ la mostra è aperta a delle forme di vita che normalmente sono vietate. Ragni e formiche tracciano le proprie linee negli spazi  acquatici dove trovano rifugio, delle api costruiscono i loro alveare e un cane circola”.

Pierre Huyghe, Centre Pompidou
Pierre Huyghe, Centre Pompidou

Dentro la mostra ti senti  in un mondo vivo e anche a te è richiesto di agire come nell’opera Atari Light, del 1999, dove il soffitto è programmato per trasformarsi in una scacchiera e il pubblico è invitato a giocarvi muovendo le pedine con dei telecomandi.

La mostra curata da Emma Lavigne è aperta al Centre Pompidou fino al 6 gennaio 2014, poi andrà al Ludwig Museum di Colonia  e poi al LACMA di Los Angeles.

Fuori dalla cornice

In tempi in cui cerchiamo di rivedere il nostro stile di vita, per piacere o necessità, vorrei  parlare del piacere provato, da noi che viviamo all’estero, al momento di trascorrere un po’ di vacanze con le persone care, che ci vengono a trovare dall’Italia.

L’incontro è ogni volta una festa e questo perché è come rientrare nella cornice che abbiamo lasciato al momento di lasciare il nostro paese.  Parlo di cornice, perché uscire da essa vuol dire uscire dal quadro in cui,  per nascita per relazioni e stato di cose, sei stato abituato a vivere. Quando cambi e lasci il tuo paese devi riscrivere un po’ tutta la tua storia. Faccio un esempio: andandosene si  incontrano nuovi amici e si hanno nuove relazioni, ma le tue parole non sono sufficienti a spiegare loro chi sei stato fino a quel momento e a cosa appartieni. E così che, presto, rinunci a dare delle spiegazioni,  cominci una nuova vita e resti sempre più  fuori dalla vecchia cornice. Ecco perché quando qualcuno della tua famiglia o fra i tuoi amici ti viene a trovare è come un piccolo terremoto affettivo e relazionale, che ti fa sentire come sospeso a metà strada tra due realtà:  collegato a ciò che eri, ma anche cosciente di quello che ormai sei divenuto.

Cerco un modo per visualizzare tutto questo e, facendo un accostamento azzardato, ho pensato a quanti artisti hanno cercato con il loro lavoro di uscire dalla cornice. Allora mi sono venuti in mente i tagli di Fontana, la sua ricerca di nuove spazialità: i suoi  tagli o buchi erano un po’ come il mio emigrare, una fuga,in quel caso  da ciò che l’arte era stata fino a quel momento; era l’esplorazione di nuovi campi.

E poi vi sono il contatto con il passato e il ritorno: su questo ho pensato all’energia che può generare l’incontro tra ciò che sta dietro di noi e  la nostra vita attuale e mi è venuto in mente il lavoro di Gilberto Zorio, esponente dell’arte povera. Con le sue forme ormai fuori dal quadro ma collegati alla parete, crea  un corto circuito che mette in circolo nuova energia .

Anche per noi è così: quando ci venite a trovare, cari amici e cari parenti, è come se riuscissimo a creare nuova energia, rigenerare cose diverse e dunque  ben vengano le partenze e gli allegri ricongiungimenti.