Un Manifesto

Pier Paolo Pasolini, citato spesso a sproposito e fuori contesto, affermava

Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni.

Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo è un Paese speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale…

Scritti Corsari 1975

Oggi i pericoli per la democrazia sono raddoppiati. Accanto al vizietto italico della smemoratezza, si inserisce l’avanzata della demagogia più bieca, che l’Economist ha individuato nel magnifico e assolutamente condivisibile articolo che celebra i suoi 175 anni di vita: A Manifest, un documento straordinario che vuole sfidare tutti i populismi proponendo un liberalismo “rinnovato” (The Economist, 15 settembre 2018, anniversary edition, pp. 11-12).

Innanzitutto la definizione che il settimanale dà di liberalismo è la seguente: “impegno universale per la dignità individuale, mercati aperti, governo limitato e una fede nel progresso umano determinato dal dibattito e dalle riforme”.

L’Economist rileva come purtroppo i governi liberali finora hanno preferito preservare lo status quo e dimenticare la loro vocazione ai cambiamenti. Relazionandosi in modo troppo stretto con il potere i “tecnocrati liberali”, che hanno apportato “infinite correzioni con politiche intelligenti, rimangono largamente distaccati dalla gente alla quale dovrebbero essere d’aiuto. Ciò crea due generi di persone chi fa e chi sopporta, i pensatori e coloro ai quali si pensa, chi fa politica e chi la subisce”.

Tale dualismo ha alimentato un senso di ribellione contro quelle che sono state percepite come  “élites liberali”, accusate di essere “insensibili, incapaci o riluttanti a risolvere i problemi della gente comune”. La ribellione, in gran parte del ricco Occidente, ha portato al desiderio di rottura con i sistemi del passato, nutrito dalla speranza nella nascita di una nuova classe politica, che si sta dimostrando ancor più inetta della precedente, ed incapace di apportare un reale cambiamento.

Il concetto di “interesse comune”  è stato frammentato a seconda delle diverse identità nelle quali la gente va riconoscendosi, definite dalla razza, dalla religione o dalla sessualità e viene cavalcato e sfruttato da quei leader che hanno trasformato il dibattito, che sta alla base della democrazia, in espressione di una “rabbia tribale”.

Come uscire dall’impasse? L’Economist suggerisce a questo punto la necessità di rinnovare il pensiero liberale ricominciando a credere nella “dignità individuale”, non solo schierandosi con i più deboli ma mettendo in secondo piano i propri privilegi. “Non storcendo il naso verso il nazionalismo ma rimodellandolo e riempiendolo con la propria impronta di orgoglio civico inclusivo” per ritornare a creare libertà e prosperità.

La ricetta sembra semplicissima, ma implica un ripensamento profondo delle idee che dovranno adattarsi alle nuove sfide sociali ed economiche, abbandonando antichi privilegi ed egoismi. A ciò sono chiamati tutti, in particolare modo i giovani, gli unici capaci di nuova linfa e nuovo pensiero.

Staremo a vedere quanti raccoglieranno la sfida. Intanto che ognuno nel suo piccolo faccia la propria parte, recuperando ciò che di civile e umano continua a vivere dentro di noi.

Populismi e democrazia

 

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In Europa tendiamo a dare per scontata la stabilità delle istituzioni democratiche. Certo, nel corso della nostra vita abbiamo visto democrazie finire male, ma si trattava di paesi molto lontani, anche per storia, e ultima da noi. Eppure abbiamo torto: le democrazie cominciano ad essere a rischio. E non per l’emergere di tendenze rivoluzionarie, quanto per un insidioso fenomeno chiamato populismo.

Il pericolo – io trovo – viene soprattutto da una nuova classe politica, eletta democraticamente, normalmente sull’onda di un’ondata di indignazione contro i partiti tradizionali e la corruzione, che sostiene agende populiste e attraverso esse compie impercettibili, ma continui, passi verso ciò che un tempo si chiamava autoritarismo. La stampa viene sbeffeggiata, gli avversari delegittimati con campagne di fango, il diverso demonizzato e via e via, sin quasi a dimenticare che i diritti umani – fondamento della civiltà e della cultura democratiche – sono universali, ossia riguardano tutti.download-1

Bene ha fatto Kenneth Roth, direttore di Human Rights Watch nel rapporto annuale della prestigiosa organizzazione, a scrivere un’introduzione proprio su questo tema: The Pushback against the Populist Challenge. Vi si sostiene che questo serpente del populismo fa tanti danni, ma che si può e si deve combattere. Non importa essere grandi e potenti per farlo, dice Roth, citando esempi di piccoli stati o di organizzazioni della società civile che hanno vinto importanti battaglie  contro di esso. Curiosamente, alcuni fra i migliori esempi vengono dall’Africa, dove la società civile ha saputo bloccare il progetto scellerato di diversi governi che volevano abbandonare in massa la corte penale internazionale. Chissà, magari i medesimi africani adesso guardano con pietà a noi Europei, apparentemente incapaci di bloccare la crescita dei populismi e dicono: “ poveretti, dobbiamo aiutarli a casa loro”.

 

 

Chiacchiere del lunedì

Questa settimana è stato assegnato il premio Nobel per la pace all’Unione Europea. Appena avuta la notizia ho pensato: “questa poi non me la sarei proprio aspettata”. E poi mi sono chiesta il perché di questa scelta.

Così sono andata a leggere meglio le motivazioni e ho trovato questo: “Oggi il premio Nobel per la pace vuole premiare il contributo dato per oltre Sessant’anni dall’UE alla promozione della pace e riconciliazione della democrazia e dei diritti umani”.

La Ue ha risposto che per lei è un grandissimo onore ricevere questo premio e tra le tante osservazioni scrive che, in fondo, è un premio destinato ai 500 milioni di cittadini che vivono nella nostra Unione. Sul momento ho pensato che questo premio me lo sono meritato anch’io, ma poi qualcosa continuava a non quadrare nella mia testa. Certo questo premio arriva proprio nel momento giusto, per rafforzare quell’ Unione così fragile e legata più da interessi economici  che morali. Ma questo premio  come può nascondere alcuni pesanti fallimenti di questa Unione?  Penso all’intera gestione dei profughi e dei richiedenti asilo a livello europeo, dove non si è trovata una soluzione adeguata – tantomeno nel  nostro paese che è  terra d’approdo per gli sbarchi.

Ripensandoci bene, il Nobel per la pace se lo meritavano proprio loro, i “fuggitivi”, definiti anche “gli invisibili”, cioè tutte quelle persone disperate che scappano dalla violenza e dalle dittature dei loro paesi portandosi negli occhi gli orrori della guerra .

Sul tema degli sbarchi in Italia  e sulla nostra impotenza di accogliere al meglio chi soffre segnalo il bellissimo film Terraferma diretto da Emanuele Crialese premiato al 68esimo Festival di Venezia.