You say you want a Revolution?

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E’ tempo di revival è tempo di riflettere sugli anni Sassanta. Ci ha pensato il Victoria and Albert Museum con una bella mostra intitolata You Say You Want a Revolution? che rimarrà aperta fino a febbraio 2017.

Visitarla è un piacere. Si viene immersi nel colore, nelle frasi scritte sui muri, nelle immagini e negli oggetti d’epoca. Non manca il video sul festival di Woodstock.proiettato da più pareti per offrire un’esperienza tridimensionale . E poi ci sono i cimeli dei Beatles, le minigonne e le copertine dei  dischi.you-say-you-want-a-revolution-victoria-and-albert-museum-5

Vi si raccontano le lotte per i diritti civili e si percepisce un’energia forte che credeva di riuscire a cambiare il mondo e migliorarlo un po’. Poi, prima di uscire, l’ultima stanza ci dà un assaggio veloce di cosa avrebbe fatto seguito a quegli anni. Scorrono le immagini e non so perché mi colpisce una vecchia clip della Coca Cola: in poche parole inneggia agli stessi ideali del decennio appena trascorso, ma presentandoli in modo subdolo vicino al prodotto da comprare.

E’ bastato poco tutto è finito dentro l’immagine di una bottiglia di Coca Cola.

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In questi giorni sono stata a vedere il film I’m Daniele Blake e mi ritrovo davanti all’immagine dell’Inghilterra di oggi. Penso che la generazione del protagonista,  ormai in là con gli anni è stata giovane negli anni Sessanta e ha respirato le utopie di allora. E adesso li ritrovo come Daniel Blake: un uomo spiazzato, emarginato non in grado di restare inserito in una società che non lo sente perché corre su binari troppo lontani da lui , le istituzioni non lo ascoltano anzi lo schiacciano con la burocrazia dettata dalla nuova tecnologia. Daniel è diventato un codice da inserire nel computer.

  Cosa è successo?  Chi gli ha tolto la dignità? dove sono finiti quegli ideali che in mostra mi davano coraggio ed ottimismo? .

Apro la televisione tra poco è Natale, tra poco la pubblicità del panettone mi dirà qualcosa e mi ricorderà come si vive bene dove esistono i valori come la condivisione, la solidarietà e il rispetto per l’altro.

La calda estate della Marcia su Washington (28 agosto 1963)

Martin Luther King davanti alla folla radunata al Lincoln Memorial di Washington (AFP/Getty Images)
Martin Luther King davanti alla folla radunata al Lincoln Memorial di Washington (AFP/Getty Images)

Il 28 agosto del 1963, cinquant’anni fa, 250.000 persone si radunarono davanti al Lincoln Memorial di Washington per quella che venne definita la Marcia per il Lavoro e la libertà.

Qui il reverendo Martin Luther King tenne il discorso più famoso della sua carriera di attivista per i diritti umani, che è rimasto nella coscienza collettiva e ha fatto la storia dell’America contemporanea.

Quello che viene universalmente definito come « I have a dream » fu pronunciato davanti « a uno tsunami, a un’onda d’urto, a un muro, a un monumento vivente, a un mosaico umano, a un vero e proprio miracolo », secondo un testimone di eccezione, Clarence B. Jones, che quelle parole aiutò a scrivere.

Questo discorso è forse uno dei pezzi più studiati dell’intera storia dell’umanità. Esperti di comunicazione, teologi, linguisti, politici lo hanno analizzato e spesso hanno cercato di riprodurne l’effetto.

Sebbene le parole del reverendo, e nello specifico I have a dream, erano già state usate in altri contesti, in quel rovente giorno di agosto, assunsero un nuovo vigore e nuovi significati. I have a dream divenne il simbolo della lotta per i diritti umani non solo degli Afro americani, ma di tutti coloro che subivano l’ingiustizia. La lotta non violenta, portata avanti da King, da quel momento fu capace di infervorare anche quella parte di America più reazionaria e immobile, che finalmente comprese la portata storica della campagna del reverendo.

La potenza dirompente di poche semplici parole, unita alla capacità comunicativa di Martin Luther King fecero il miracolo : « I have a dream: that one day this nation will rise up and live out the true meaning of its creed: “We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal” »

Nel testo originale del discorso, che il reverendo doveva tenere davanti alla folla, queste parole non erano previste. Egli le aggiunse sul momento, come ricorda ancora una volta Clarence B. Jones, pressato dalla cantante di colore Mahalia Jackson, che urlando lo spingeva a « raccontare il suo sogno ».  Solo allora egli mise da parte i fogli che diligentemente aveva preparato e incominciò a parlare a « braccio », traducendo in parole e in tempo reale i sentimenti che quella folla impressionante davanti a lui provava.

Un discorso, quello di Martin Luther King, in fondo semplice e schietto, ma citato con tutta l’anima e il cuore.

Chissà se mentre parlava a quella folla immensa, il reverendo ebbe la consapevolezza di pronunciare parole che avrebbero fatto la storia lasciando un segno indelebile.