Un ricordo di Magdalena Abakanowicz

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Una donna forte con un portamento nobile e fiero, così ricordo l’artista Magdalena Abaknaowicz . L’ho conosciuta quando ero una ragazzina e ho scritto su di lei la tesi di laurea. L’ho scelta perché il suo lavoro non ammetteva fronzoli: era diretto, come un pugno nello stomaco. 

Le sue folle di uomini senza testa, gusci di iuta e poi di bronzo, mi sembravano monumenti su guerre e sofferenze passate. Ricordo che per la ricerca stavo con lei, nel suo studio di Varsavia, scandagliando  i suoi ricordi: il periodo della guerra, la madre ferita da un’arma da fuoco,  l’arrivo del comunismo, la perdita di tutto, anche della grande casa in cui era nata. Si considerava fortunata di aver perso tutto perché riusciva ora a dare il giusto valore alle cose e non ne sentiva più l’attrazione. 16-J-tr-Hurma-1995-exhibited-at-CSW-1995

Ha cominciato tessendo grandi forme, che guardavano alla natura : erano gli Abakan, grandi strutture  tessute, appese e quindi sospese in aria, dentro cui ci si poteva nascondere. Ricordavano grandi foglie, o forme primordiali. Il suo lavoro ha sempre girato attorno al tema natura-essere umano: cercava, ad esempio, i punti di contatto tra un arto ferito e un albero tagliato, tra un braccio e un albero, tra un fossile e la pelle  umana.852fd1d2ceda9ce55e9bce04b7b3496e

Pochi giorni fa l’artista Magdalena  Abakanowicz è morta e il suo paese d’origine, la Polonia, l’ha ricordata come una delle più importanti rappresentanti della propria cultura . Cara Magdalena ci mancherai tanto. Quell’ultima installazione che ho visto a Venezia, sull’ Isola di San Giorgio, due anni fa,  di oltre cento figure di iuta senza testa, non mi ha fatto pensare a guerre passate: l’immagine di quelle figure umane, in gruppo, grandi e piccole, in atto di camminare o ferme, mi sembrava il nostro presente; mi richiamava alla mente i fantasmi di tutti coloro che in questi anni hanno cercato di scappare dalla guerra e dalle atrocità per arrivare da noi, ma non ce l’hanno fatta e  sono annegati o morti  nel deserto.  03bcedbf0a6a290a3b29aa1a77ba2c44

Rabbia, ma nessuna rassegnazione

Oggi diamo spazio ad  un  amico impegnato in Costa d’Avorio, il suo messaggio è duro, uno sfogo, mosso dal desiderio di raccontare la sua esperienza. La foto che abbiamo scelto  per il testo sono opere dell’artista polacca Magdalena Abakanowicz e sono state scelte da noi.

Tempo fa, entrando all’ospedale regionale distante 30 km  da dove vivo e lavoro (cioè un centro sanitario in Costa d’Avorio creato da una Fondazione italiana di cui sono il supervisore) un infermiere, tra le risate generali, chiamandomi per nome , mi chiese “cerchi i tuoi bambini?”.

È passato un anno e più forse dall’episodio, ma la cosa non esce dalla mia testa, e continua a farmi schifo! Si, cercavo i “miei bambini”. O meglio, cercavo sangue per trasfusioni per uno dei “miei” bambini del centro. La diagnosi è sempre la stessa: malaria, quindi anemia, quindi la trasfusione è necessaria, bisogna cercare sangue. A volte è semplice, altre no, altre volte non si trova, e finisce li…

Questo ridere di un africano dei suoi figli morenti o il nostro ridere delle sofferenze degli altri è una cosa che ci unisce nella nostra comune appartenenza alla razza umana, e non aiuta.

Mentre vedo i miei colleghi neri al centro sanitario che gestisco prodigarsi, ben oltre i loro turni di lavoro spesso, per assistere malati o cercare di parlare con le  famiglie per praticare un minimo di prevenzione, mi sento attorniato da vere e proprie bestie, come un anno fa all’entrata dell’ospedale pubblico regionale.

Quali, quanti e fino a dove possono essere i danni delle nostre mentalità distorte? Un mafioso, un delinquente diventano tali solo perché nascono in un contesto di povertà o è colpa della famiglia di appartenenza, o della società in cui vivono o…?

E quando al centro arrivano bambini di 2 anni che pesano solo 6 kg (nella regione in cui vivo e lavoro in Costa d’Avorio, al confine col Ghana, le soluzioni per mangiare ci sono eccome, quindi non si tratta solo di povertà) riuscirò a farmi ascoltare dai genitori?

Su queste verità, basate su comportamenti oggettivi, si creano opinioni.

Ma voglio fare un salto indietro, a quando ero bambino nei primi anni ottanta in Italia. Mi ricordo di  quando mi dicevano del povero nero che è sempre l’ultimo della fila a prendere la mela (c’era un manifesto così  a scuola e il pensiero mi porta subito all’infermiere che ride dei miei bambini) e della mafia che non esiste (lo disse una volta un’autorità in pubblico in tv, mi ricordo). Anche da queste opinioni, si creano mentalità. Ho allora l’impressione che qualcuno stia “giocando” col nostro fegato.

Come possiamo proteggerci dalle miserie della nostra razza, e dai miserabili che le fanno vivere, per soldi, potere o entrambi, ogni giorno? (lasciamo stare i massimi sistemi,per carità).

Sarà la bellezza a salvarci o quella famosa risata li seppellirà?

Io, intanto, continuerò a cercare sangue…