Un passo indietro…

Lunedì 29 gennaio il Consiglio di Stato, accogliendo il ricorso di un centinaio di docenti (96 su 916 per  l’esattezza), ha pubblicato una sentenza secondo cui viene confermata l’illegittimità dei corsi universitari erogati interamente in lingua inglese.

Il Senato accademico del Politecnico di Milano nel 2012 aveva previsto il «rafforzamento dell’internazionalizzazione anche attraverso una maggiore mobilità dei docenti e degli studenti, programmi integrati di studio, iniziative di cooperazione interuniversitaria per attività di studio e di ricerca e l’attivazione, nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, di insegnamenti, di corsi di studio e di forme di selezione svolti in lingua straniera». Questo provvedimento ha portato nel corso degli anni ad un aumento significativo degli iscritti ai corsi del Politecnico di Milano e di tutti gli atenei pubblici sparsi in Italia che ne hanno seguito la traccia, segno che i giovani italiani hanno apprezzato e compreso lo sforzo, adeguandosi alle nuove richieste (quanto è bella la gioventù che si predispone con elasticità alle sfide!).

Oggi con la sentenza del Consiglio di Stato questa libertà, che era stata concessa agli atenei e promossa anche dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, è stata sospesa.

Ho letto con attenzione il testo della sentenza del Consiglio di Stato e purtroppo considero questa decisione un pasticciaccio tutto italiano.

Si ciancia «del primato della lingua italiana, della parità nell’accesso all’istruzione universitaria e della libertà d’insegnamento»

Non si può secondo la sentenza «ridurre la lingua italiana, all’interno dell’università italiana, a una posizione marginale e subordinata, obliterando quella funzione, che le è propria, di vettore della storia e dell’identità della comunità nazionale, nonché il suo essere, di per sé, patrimonio culturale da preservare e valorizzare». Il principio è sacrosanto, ma forse non si dovrebbe sottovalutare il fatto che in alcuni ambiti formativi, soprattutto quelli scientifici, a torto o a ragione, la koiné è divenuto l’inglese ed è un trend questo che non si può né arrestare né ignorare.

Sempre secondo la sentenza non si può imporre «quale presupposto per l’accesso ai corsi, la conoscenza di una lingua diversa dall’italiano, così impedendo, in assenza di adeguati supporti formativi, a coloro che, pur capaci e meritevoli, non la conoscano affatto, di raggiungere “i gradi più alti degli studi”, se non al costo, tanto in termini di scelte per la propria formazione e il proprio futuro, quanto in termini economici, di optare per altri corsi universitari o, addirittura, per altri atenei». A mio parere con ciò non solo si ammette la pochezza di una parte dell’offerta formativa della scuola primaria e secondaria italiana, ma se ne sottolineano le pecche che lasciano i nostri studenti ai margini del mercato del lavoro internazionale (è inammissibile che oggi un architetto o un ingegnere o un biologo non conoscano la lingua inglese, ma anche un ragazzo delle medie e del liceo dovrebbe essere adeguatamente preparato a comunicare almeno in una seconda lingua straniera).

Ma ciò che mi ha fatto davvero arrabbiare è la terza ragione della sentenza, che mostra palesemente il desiderio di mantenere lo status quo della formazione universitaria dei dinosauri dell’istruzione, quella parte del corpo docente restia si cambiamenti e che non vuole (perché faticoso) o non può (perché non lo conosce) insegnare in inglese. Secondo questa terza ragione l’erogazione dei corsi in inglese «potrebbe essere lesiva della libertà d’insegnamento, poiché, per un verso, verrebbe a incidere significativamente sulle modalità con cui il docente è tenuto a svolgere la propria attività, sottraendogli la scelta sul come comunicare con gli studenti, indipendentemente dalla dimestichezza ch’egli stesso abbia con la lingua straniera; per un altro, discriminerebbe il docente all’atto del conferimento degli insegnamenti, venendo questi necessariamente attribuiti in base a una competenza – la conoscenza della lingua straniera – che nulla ha a che vedere con quelle verificate in sede di reclutamento e con il sapere specifico che deve essere trasmesso ai discenti».

Un gran polverone insomma che ha seminato scontento e sconcerto fra gli studenti. Poco importa che l’Accademia della Crusca, solitamente pacata ed equanime, abbia gioito della sentenza.

A voi la parola, ricordando che è nostra precisa responsabilità dare le armi adeguate alle nuove generazioni per aprirsi al mondo e alle nuove sfide del futuro!

Lingua madre (o matrigna?)

Lo abbiamo già scritto in un post di qualche tempo fa… ci piace che al Politecnico di Milano la lingua inglese non sarà più solo materia di studio, ma diventerà lingua di insegnamento e apprendimento, questo per fare fronte alla competizione globale, per attirare nuovi studenti dall’estero (soprattutto dal «far east»), per rimanere al passo con i tempi, per essere pronti e capaci di lavorare in un contesto internazionale.

La BBC, in un recentissimo articolo del sito on line, afferma che l’inglese, essendo già la lingua universalmente utilizzata nel mondo degli affari, diventerà una sorta di nuova Koiné anche per l’educazione, la ricerca e lo studio, sottolineando però quanto ciò rappresenti un pericolo per le varie lingue, culture e tradizioni regionali. Tutti noi sappiamo bene quanto questa realtà sia molto più vicina di quanto si possa immaginare (se facciamo attenzione, infatti,  in qualche film di fantascienza di ultima generazione spesso anche gli alieni capiscono e parlano perfettamente l’inglese!) e quanto il pericolo dell’essere fagocitati da una lingua, ma soprattutto da una cultura che non ci appartiene e che sotto alcuni aspetti é lontana da noi mille miglia, sia effettivamente reale.

Nel nostro piccolo, allora, siamo corse ai ripari…

Un’amica, valida, preparata ed entusiasta insegnante di italiano (!) in una scuola internazionale, ci ha chiesto di dare una mano ai suoi studenti suggerendo loro articoli, libri, siti web, che li possano aiutare nella loro ricerca su un aspetto particolare della società o della cultura italiana. Ci ha invitate a parlare con i ragazzi e noi ci siamo sentite onorate non solo di dare una mano concreta, ma soprattutto di avere l’opportunità di far conoscere meglio la nostra cultura e le nostre tradizioni,  facendone apprezzare tutti gli aspetti positivi, di cui siamo fiere. I ragazzi che abbiamo incontrato ci sono sembrati non semplicemente interessati, ma avidi di informazioni e ricchi di domande, segno che l’Italia riesce ancora a stimolare l’interesse di molti!

Sarà necessario sfatare miti (la pizza infatti non può essere considerata «vegetale»), presentare il meglio di noi (visto che il peggio lo potranno tranquillamente leggere sulle news) e il meglio di una storia di secoli, anzi no, di millenni, sulla quale è stata costruita gran parte della tradizione occidentale, senza dimenticare che fino al Rinascimento e oltre siamo stati i più grandi esportatori di cultura e che, fra il XV e il XVII secolo, si parlava italiano in tutte le corti europee.

Ora basta, sono stata sufficientemente nostalgica, ma ritengo necessario che le nuove generazioni, soprattutto quelle «straniere» tecnologiche, inetrnaute, incredibilmente pronte e capaci abbiano la possibilità di fermarsi a capire e ad apprezzare un intero sistema formato da valori, cultura, tradizioni e lingua che é parte di ognuno di noi.

La nostra stessa esperienza di italiani all’estero ci insegna che è possibile conciliare  le due dimensioni: quella della lingua materna (materna non solo perché é quella di cui le nostre madri ci hanno nutriti, insieme al latte, fin da piccolissimi, ma soprattutto perché attraverso di essa abbiamo assimilato un’identità precisa e incancellabile) e quella della lingua acquisita, sempre più spesso l’inglese, che ci nutre in un altro modo, consentendoci di sentirci cittadini del mondo in grado di comunicare, interagire e cercare di comprendere quegli “altri”, che solo attraverso la possibilità di dialogo, non fanno più paura.

…ci piace

Ci è piaciuta la scelta del Politecnico di Milano che, dal 2014, terrà i corsi dei bienni specilistici e dei dottorati in inglese.

Siamo d’accordo con il rettore Giovanni Azzone quando afferma che i nostri giovani  devono avere  “oltre alle competenze scientifiche anche un’apertura culturale internazionale”. Perchè –come dice Azzone- “un ragazzo che si affaccia al mondo del lavoro deve abituarsi a lavorare in contesti internazionali. E poi in questo modo si possono attrarre anche studenti stranieri , un valore aggiunto per il nostro paese”.