Giornata internazionale per lo sradicamento della povertà

POVERTÀ = “condizione umana caratterizzata da prolungata o cronica privazione delle risorse, delle capacità, delle alternative, della sicurezza e della necessaria possibilità di godere di adeguati livelli di stile di vita e di altri diritti civili, culturali, economici politici e sociali” (United Nations Committee on Social, Economic and Cultural Rights, 2001).

La povertà dunque non è determinata da un solo motivo, ma dall’assenza accumulata di diversi fattori strettamente legati gli uni agli altri che incidono sulla vita delle persone.

È dunque necessario pensare a questa nuova definizione della povertà che non è solamente assenza di guadagno o impossibilità di accedere a beni materiali, la povertà ha assunto nel mondo nuove ed impressionanti dimensioni.

Oggi si celebra la Giornata internazionale per lo sradicamento della povertà e le Nazioni Unite hanno scelto come tema una forma particolare di povertà, quella creata dall’umiliazione e dalla esclusione alla partecipazione.

Il Segretario generale delle Nazioni Unite ha affermato “La povertà è al tempo stesso causa e conseguenza di emarginazione e di esclusione sociale. Per tenere fede alla promessa del programma 2030 – non lasciare nessuno da parte – dobbiamo sconfiggere l’umiliazione e l’esclusione di coloro che vivono in condizioni di povertà. L’umiliazione e l’esclusione sono importanti cause di instabilità sociale e, nel peggiore dei casi di estremismo violento che agita molte parti del mondo. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, le persone che vivono in povertà devono affrontare questi mali, mostrando una resistenza stoica, lavorando per sfuggire alla realtà degradante della loro vita quotidiana.

Dobbiamo abbattere i muri di povertà e di esclusione che affliggono tante persone in tutte le parti del mondo. Dobbiamo costruire società inclusive, incoraggiando la partecipazione di tutti. Abbiamo bisogno di udire le voci di coloro che vivono in condizioni di povertà.

In questa Giornata internazionale per l’eliminazione della povertà, cerchiamo di sentire le voci di coloro che vivono in condizioni di povertà. Cerchiamo di impegnarci a rispettare e difendere i diritti fondamentali di tutti e a mettere fine all’umiliazione e all’esclusione sociale vissuta quotidianamente da coloro che vivono in condizioni di povertà, coinvolgendoli nello sforzo globale per l’eradicazione della povertà estrema una volta per tutte”.

Un angelo alla mia tavola

Sempre pensando se l’arte è un percorso privilegiato dell’esistenza mi domando se, chi possiede una particolare sensibilità artistica, oltre a sentirsi escluso dal sentire comune può, in qualche modo avvicinarsi a delle esperienze che non sono lontane dal trovare la felicità. Sono molti gli esempi nell’arte che vengono in mente e sappiamo bene come, per alcuni artisti questa sensibilità sia stata un fardello troppo grande che li ha schiacciati, pensiamo a Van Gogh. Ci sono però anche artisti  che hanno fatto del loro sentire e del loro “squilibrio”  un punto di forza come  l’artista giapponese Yayoi Kusama che per tutta la vita ha prodotto dei lavori che sono come un’espansioni delle sue ossessioni. Elementi puntiformi, sferici linee curve che si ripetono all’infinito si moltiplicano e si espandono fino a comprendere lei e noi  nello spazio.

Proprio poco tempo fa  mi sono imbattuta in un bellissimo libro dal titolo Un angelo alla mia tavola della scrittrice neozelandese Janet Frame. La scrittrice scomparsa nel 2004 ha fatto dello scrivere la ragione della sua sopravvivenza. Questo libro  autobiografico (in verità sono tre volumi ma pubblicati in uno solo con quel titolo per l’Italia da Neri Pozza) racconta tutta la sua vita segnata dalla schizofrenia (in realtà presunta dai dottori e poi sconfessata). Un fatto devastante, che l’ha condotta a trascorrere parte della sua vita  dentro e fuori gli ospedali psichiatrici. Anche in questo caso l’arte l’ha salvata e scrivendo ha trovato la strada di fuga dal dolore.

Il libro non racconta solo di questo  ma scorre tanti episodi dall’infanzia, alla povertà,  i dolori della crescita prima con la morte della sorella e poi l’orrore dell’ospedale psichiatrico, il tentativo di suicidio e il ritorno alla casa paterna.

Senz’altro Frame è una delle più grandi scrittrici della seconda metà del Novecento Janet Frame per due volte nominata per il Premio Nobel ci fa entrare nela sua vita in modo secco e diretto che ti tiene legato a lui fin dalle prime pagine.

Dal libro è stato anche tratto un film della regista Jane Campion.

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Rabbia, ma nessuna rassegnazione

Oggi diamo spazio ad  un  amico impegnato in Costa d’Avorio, il suo messaggio è duro, uno sfogo, mosso dal desiderio di raccontare la sua esperienza. La foto che abbiamo scelto  per il testo sono opere dell’artista polacca Magdalena Abakanowicz e sono state scelte da noi.

Tempo fa, entrando all’ospedale regionale distante 30 km  da dove vivo e lavoro (cioè un centro sanitario in Costa d’Avorio creato da una Fondazione italiana di cui sono il supervisore) un infermiere, tra le risate generali, chiamandomi per nome , mi chiese “cerchi i tuoi bambini?”.

È passato un anno e più forse dall’episodio, ma la cosa non esce dalla mia testa, e continua a farmi schifo! Si, cercavo i “miei bambini”. O meglio, cercavo sangue per trasfusioni per uno dei “miei” bambini del centro. La diagnosi è sempre la stessa: malaria, quindi anemia, quindi la trasfusione è necessaria, bisogna cercare sangue. A volte è semplice, altre no, altre volte non si trova, e finisce li…

Questo ridere di un africano dei suoi figli morenti o il nostro ridere delle sofferenze degli altri è una cosa che ci unisce nella nostra comune appartenenza alla razza umana, e non aiuta.

Mentre vedo i miei colleghi neri al centro sanitario che gestisco prodigarsi, ben oltre i loro turni di lavoro spesso, per assistere malati o cercare di parlare con le  famiglie per praticare un minimo di prevenzione, mi sento attorniato da vere e proprie bestie, come un anno fa all’entrata dell’ospedale pubblico regionale.

Quali, quanti e fino a dove possono essere i danni delle nostre mentalità distorte? Un mafioso, un delinquente diventano tali solo perché nascono in un contesto di povertà o è colpa della famiglia di appartenenza, o della società in cui vivono o…?

E quando al centro arrivano bambini di 2 anni che pesano solo 6 kg (nella regione in cui vivo e lavoro in Costa d’Avorio, al confine col Ghana, le soluzioni per mangiare ci sono eccome, quindi non si tratta solo di povertà) riuscirò a farmi ascoltare dai genitori?

Su queste verità, basate su comportamenti oggettivi, si creano opinioni.

Ma voglio fare un salto indietro, a quando ero bambino nei primi anni ottanta in Italia. Mi ricordo di  quando mi dicevano del povero nero che è sempre l’ultimo della fila a prendere la mela (c’era un manifesto così  a scuola e il pensiero mi porta subito all’infermiere che ride dei miei bambini) e della mafia che non esiste (lo disse una volta un’autorità in pubblico in tv, mi ricordo). Anche da queste opinioni, si creano mentalità. Ho allora l’impressione che qualcuno stia “giocando” col nostro fegato.

Come possiamo proteggerci dalle miserie della nostra razza, e dai miserabili che le fanno vivere, per soldi, potere o entrambi, ogni giorno? (lasciamo stare i massimi sistemi,per carità).

Sarà la bellezza a salvarci o quella famosa risata li seppellirà?

Io, intanto, continuerò a cercare sangue…