Gioia grande

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E’ un po’ di tempo che la mia famiglia allargata sforna bellissimi bambini e questo, capite bene, è una gioia grande.  Sono tutti cittadini italiani. L’altro giorno, mentre cercavo di immaginare per essi una vita serena e improntata all’apertura verso gli altri, mi sono imbattuta nella sfida lanciata dall’Università di Pavia: cancelliamo la parola razza nell’articolo 3  della Costituzione italiana. La sottoscrivo in pieno! Anche se qualche spiegazione è d’obbligo. La proposta è del professore Carlo Alberti Redi  e di Manuela Monti ed è contenuta in un libro dal titolo No razza si cittadinanza. L’obiettivo è di promuovere una legge di iniziativa  popolare per cancellare la parola razza.

 Nell’articolo della Costituzione si legge:

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Diciamo subito che questo articolo è uno dei cardini se non il cardine della costituzione ed è anche un articolo BELLISSIMO. Il secondo comma (la seconda parte) sancisce il principio di eguaglianza sostanziale: non conta che due persone abbiano gli stessi diritti politici se uno è benestante e sano, mentre l’altro muore di fame, o è malato, o non ha i mezzi culturali per partecipare. Per godere appieno della cittadinanza, si deve mettere tutti sullo stesso piano di capacità. E’ proprio questo l’articolo che introdusse in Italia lo stato sociale: scuola e assistenza sanitaria pubbliche, dunque accessibili da tutti, e cosi’ via. Un elemento di grande civiltà. Purtroppo, allora, i Padri Costituenti usarono il linguaggio del tempo, e nella prima parte dell’articolo scappo’ loro quel sostantivo – razza – che tanti orrori aveva causato negli anni precedenti (leggi razziali, olocausto e cosi’ via). I costituenti lo misero affinché quegli orrori non si ripetessero più, certo, ma oggi possiamo, anzi dobbiamo, toglierlo, per significare che le razze non esistono e che ogni razzismo è del tutto privo di fondamento. Il razzismo appartiene alla parte peggiore dell’essere umano: quella che lo avvicina al male assoluto.

Sembra un piccolo passo per migliorare il mondo, lo so, ma rimane il miglior  annuncio  da dare a chi è venuto da poco a vivere con noi su questa terra.

Evviva le gioie grandi fiocco-nascita.600

buona settimana

 

 

 

 

 

 

 

Il giorno dopo il 1 Maggio: pensieri

scena dal film, 12 anni schiavo di Steve Mc Queen
scena dal film, 12 anni schiavo di Steve Mc Queen

Tutti gli uomini (oggi diremmo gli uomini e le donne) sono creati eguali. Le belle parole scritte da Thomas Jefferson nella dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America. Le parole che lo hanno fatto passare alla storia come colui che, con un tratto di penna, cambiò il giudizio di Aristotele sul fatto che certi essere umani nascono per comandare e altri solo per servire. No: tutti nascono eguali. Parole altissime. Eppure Jefferson aveva degli schiavi nella propria piantagione, a Monticello (proprio Monticello, si chiamava, dal momento che Jefferson amava l’Italia). E nemmeno pochi: ne aveva svariate decine. L’azienda di famiglia andava avanti per mezzo degli schiavi.

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scena dal film, 12 anno schiavo di Steve Mc Queen

Il motivo era che la schiavitù, oltre che centrata sulle schifose e demenziali concezioni razziste che purtroppo sembrano non scomparire mai in questo mondo, si basava sullo sfruttamento della manodopera a costo zero. Lo stesso Jefferson in una lettera scrisse che ogni volta che nasceva un nuovo schiavo nella piantagione i suoi profitti tendevano ad aumentare.

Bangladesh, crollo palazzo
Bangladesh, crollo palazzo, aprile 2013

Sfruttamento: l’altra faccia della schiavitù. Come lo sfruttamento,  selvaggio che si compiva un anno fa nel Rana Plaza, in Bangladesh, dove più di mille persone – al lavoro per un salario da fame – sono morte perché le più elementari norme di sicurezza venivano costantemente ignorate.

La schiavitù e lo sfruttamento non muoiono mai: cambiano, si trasformano, ma sopravvivono nei meccanismi legati all’avidità, alla volontà di massimizzare il profitto a scapito di tutto e tutti. Abbiamo ancora tanta strada da fare per poter affermare con sicurezza che, nei fatti, in pratica, nasciamo tutti eguali.

 

L’altro

jean Michel Basquiat
Jean–Michel Basquiat

Sarà che in questo periodo ci guardo di più, ma ogni volta che una notizia dell’Italia raggiunge la Svizzera, non mi rallegro mai. E’ mattina presto, sono in attesa del treno in una stazione, guardo un video con le notizie e due sono dedicate al mio paese:

Maxi retata: sgominata la banda dei bagagli che operava in otto aeroporti italiani.

Offese e frasi razziste contro il nuovo ministro dell’integrazione Cecile Kyenge, di origini congolesi.

Tralasciamo la prima notizia che dà subito un’immagine del nostro paese fatto di furbini e ladruncoli, e che non ha mancato di far sorridere le persone che attendavano il treno con me.

Un commento meritano invece agli attacchi subiti dal ministro. Quelli mi arrivano dritto in testa e mi fanno male perché vengono da persone che fanno parte della nostra classe politica. Povero paese mio, mi dico, mentre il mondo si trasforma  e tutto corre velocemente, tu fatichi un sacco e non ti decidi a vedere ciò che di buono ti offre la modernità.  Le tue parole di disprezzo per persone che non sono come te, in cui tu non ti riconosci per il colore della pelle o per qualsiasi altra differenza, dimostrano solo che sei troppo vecchio, decadente.

Cosa mi propone la ristretta faccia dell’Italia razzista ? Quella che pensa che  “loro, gli extracomunitari, non sono dei nostri”, che li possiamo usare per tutto senza considerare i loro diritti perché tanto sono più deboli e non possono reagire?

E qui sta l’errore: l’altro, in un mondo come quello in cui viviamo, è una ricchezza per tutti noi e non dobbiamo averne paura. La paura di chi è apparentemente diverso da noi si fonda su una società che fa di tutto per omologarci. Spende tutte le sue energie per rassicurarci, per farci aspirare a una vita di recinto. Dentro al recinto possono convivere solo tutti quelli  come me ( si riconoscono perché hanno un certo modello di macchina, un vestito, un orologio, una tipologia di famiglia, una religione ): E invece così ci fregano perché il bello sta fuori e si manifesta nell’imprevedibile e nell’incontro con persone con tradizioni e culture  diverse dalle mie.

Chiacchiere del lunedì

Prova mafalde

Tahar_Ben_JellounLa crisi è colpa degli stranieri?

Noi che siamo stranieri in un paese che ci ospita siamo sensibili a parole quali identità,  appartenenza, integrazione, diversità e rifiuto. E così mi ha colpito in modo particolare un articolo di Tahar Ben Jelloun, uscito su l’Espresso del 10 gennaio scorso, in cui si metteva in luce come una delle più pericolose conseguenze della crisi economica in Europa sia un rinnovato vigore razzista, che affonda le sue idee nel  disprezzo per gli immigrati irregolari, ma anche  per tutti quei cittadini che sono figli di genitori stranieri.

Temo che il pregiudizio sia figlio dell’ignoranza! La paura dell’altro va di pari passo con la paura del cambiamento, il pericolo che alcuni perdono di poter perdere qualcosa faticosamente conquistato. Finché non ci sarà spazio per la tolleranza non sarà possibile raddrizzare le cose e la tolleranza si acquisisce con la volontà di comprendere. Comprendere altre culture, altre idee, altre religioni con occhio sereno.

A dire la verità, è così. Questo disprezzo non è neanche così subdolo e nascosto: anzi sempre più si manifesta alla luce del sole.  A chi non è capitato negli ultimi tempi di subire o dover ribattere a una battuta di troppo contro le minoranze straniere? Eppure è sempre più consistente il numero di persone che vivono a cavallo di culture diverse. In modo particolare, mi tocca da vicino la vita dei  figli dei genitori stranieri e quanto sia delicata per essi la questione dell’identità.  Queste persone si trovano una doppia sfida:  assimilare e comprendere la cultura dei propri  genitori, ma anche vivere a pieno quella del paese in cui vivono. Un sfida resa ancor più difficile se devono affrontare la disonestà intellettuale  e la stolta arroganza di persone razziste.

Sono fiduciosa nelle capacità delle nuove generazioni. Ad esempio i nostri figli così esposti, così apparentemente fragili, in realtà si stanno preparando ad un mondo nuovo, in cui l’altro, il diverso, non fa più paura. 

C’è un modo per proteggere questo  nuovo cittadino che rappresenta  la fusione tra il suo passato e il suo presente?

No, non credo che esista! Però lasciamo loro le ali per volare alti!