Chiacchiere del lunedì

Abbasso il tempo trascorso nei centri commerciali.

Hai ragione ABBASSO i centri commerciali! Ma te li ricordi i negozietti in centro? Ecco un ricordo che i nostri figli non avranno: il negozio a misura d’uomo! Ancora sogno una drogheria della mia città dove c’era un enorme scaffale carico di caramelle e cioccolato. Lì vendevano anche il “perborato” e il sapone a scaglie e ricordo perfettamente i profumi deliziosi che ti avvolgevano quando entravi!

Per questo mi viene da dire che in Svizzera sono molto più indietro e quindi anche molto più avanti. Infatti non solo i loro centri non sono aperti di domenica e nemmeno i giorni prima delle feste. Ora che la crisi economica si sta facendo sempre più profonda, loro hanno anticipato la tendenza verso un consumo più responsabile, senza essere mai stati contagiati dal virus del consumismo.

Famosa, infatti, è rimasta dalle nostre parti la campagna pubblicitaria fatta contro l’apertura dei negozi di domenica, in cui si mostravano bambini in lacrime perché i genitori dovevano recarsi a lavoro… persino esagerata!

A dire il vero, quando entro in un centro commerciale, mi sento allegra, con tante persone attorno e tutto pulito e luccicante. I miei sensi mi trasmettono qualcosa di positivo, inizialmente, ma il problema è quando ci rimango un po’ troppo a lungo: allora comincio a vedere intorno a me bambini soffocati e innervositi, facce stressate e tutte compresse, gente assente: insomma, comincio a percepirmi come dentro a un acquario. È a quel punto che mi viene voglia di scappare.

Come al solito è questione di misura… certo che, con tutto il ben di dio che contengono, questi enormi scatoloni, in cui davvero trovi di tutto di più, sono difficili da digerire, ma anche difficili da lasciare… anzi il più delle volte sono loro a lasciarti… al verde! 

Ci piace


Ci piace la notizia che abbiamo letto sulla Tribune de Geneve  del 30 maggio scorso.

Stop alle frontiere per i cetacei. Aboliti gli spettacoli coni delfini, il Consiglio Nazionale svizzero ha deciso di vietare l’importazione di tutti i tipi di cetacei come i delfini, le  orche ammaestrati usati nel delfinaio svizzero di Connyland. E’ un buon inizio  e un riconoscimento a difesa degli animali.

La fatica di vivere

A lungo mi sono chiesta se fosse il caso di pubblicare questo post e addentrarmi in una vera e propria «selva oscura», alla fine ho deciso di farlo, perché sono certa che in tanti, almeno una volta nella vita, ci siamo posti domande su questo argomento.

Fonte di ispirazione per queste riflessioni è stata la notizia, riportata e commentata da molti quotidiani svizzeri (quali Le Temps24 heures), che nel Canton Vaud, il 17 giugno prossimo, la popolazione sarà chiamata a votare una modifica della legge della Pubblica Sanità in materia di «assistenza al suicidio».

E sì, perché la Svizzera (pur vivendoci non ne ero a conoscenza, poiché come spesso accade per tutto ciò che riguarda l’ultimo viaggio, da brava italiana la prima reazione è sempre stata quella di «fare le corna» con, a seguire, la manifestazione del disinteresse più assoluto…) é il solo paese in cui l’assistenza al suicidio – per quelle persone che sono affette da malattie mortali, la cui speranza di vita é inesistente e ne fanno richiesta nel pieno delle loro facoltà mentali o attraverso il loro testamento biologico (qui accettato) – é legale, rigidamente codificata e regolamentata da leggi federali e cantonali.

Voglio assolutamente cercare di essere super partes e spero di riuscirci, perché il mio intento non è quello di esporre il mio punto di vista, quanto piuttosto di suscitare una serie di interrogativi, che mi sembrano legittimi.

Innanzitutto la legge: la costituzione vaudese riconosce a tutti il diritto di morire in modo dignitoso.

E queste poche parole sono state tradotte nella legge di Pubblica Sanità concedendo agli ospedali la possibilità di somministrare la dose letale a chi ne faccia richiesta. Ciò non a cuor leggero, si intende. Il processo, finora, è stato lungo e laborioso, coloro che richiedono la soluzione finale sono sottoposti a una lunga serie di esami clinici e di colloqui con psicologi e assistenti sociali, solo laddove si ravvisa la concreta impossibilità di avviare nuove cure contro un male incurabile, quando il soggetto è realmente senza speranza, solo allora come ho detto, lo si aiuta al trapasso per alleviarne le pene.

Esistono però associazioni che hanno iniziato a donare la «buona morte» anche a coloro che la richiedono a prescindere da una situazione di malattia terminale. Persone affette da una serie di malattie fisiche non mortali, ma che rendono l’esistenza impossibile: artrosi deformanti, problemi di mobilità, cecità, incontinenza. O ancora soggetti con i mali dell’anima come le depressioni acute, che hanno via via perso la gioia di vivere, che sono rimaste sole e non vedono altra via d’uscita. Tutti mali che si stratificano gli uni sugli altri e che sottopongono i pazienti ad una presunta e inutile fatica di vivere e all’impossibilità di portare avanti un’esistenza dignitosa. Condizioni queste che toccano soprattutto un particolare tipo di soggetti: gli anziani.

Sotto la spinta popolare di diverse associazioni di malati di questo tipo si è giunti al referendum del 17 giugno, in cui viene chiesto di cambiare la legge in vigore, dando la possibilità di porre fine alla propria esistenza attraverso le organizzazioni di assistenza al suicidio anche nelle istituzioni che noi chiameremmo «case di riposo» e che in Svizzera sono le EMS, senza dover attraversare la lunga e dolorosa trafila degli esami clinici che la legge prevede, anche da parte di persone la cui vita non è in pericolo immediato.

Le domande a livello morale, etico, religioso che affiorano sono talmente tante che è inutile qui farne una lista. Mi voglio limitare a suggerirne alcune, non necessariamente quelle “giuste” o condivisibili.

Innanzitutto è proprio vero che come ognuno ha il diritto di vivere come vuole, ha anche il diritto di porre fine alla propria esistenza, quasi ricorrendo poi ad uno stratagemma come quello del suicidio assistito?

Credo sia lecito chiedersi, insieme a B. Kiefer, capo redattore della rivista medico scientifica svizzera e membro della Commissione nazionale di etica, se « l’allargamento di questa zona grigia (fatta di pazienti non in pericolo di vita ma che non desiderano più vivere) non è forse fare il gioco di una società dove bellezza, giovinezza e performance sono divenuti i valori principali?». Non può significare l’anticamera di qualcosa di molto più grave come la cancellazione ad esempio degli errori di una natura che può essere insensibilmente matrigna?

E ancora: «prima di rispondere al desiderio di morte, non bisogna forse domandarsi se alcune di queste persone, debitamente aiutate (cosa che costa non solo in termini monetari), possano ritrovare un senso alla propria esistenza malgrado i problemi?».

E mi fermo qui… spero se ne riesca a parlare

A margine di tutto ciò… quanto è difficile parlare di morte e quanti eufemismi ho usato in queste poche righe (trapasso, buona morte, soluzione finale ecc.) per aggirare la parola morte, tout court, così dura, così inquietante, così definitiva.

Finalmente finita la guerra… dei conigli dorati!

È stata dura. Decine di coniglietti dorati verranno sacrificati per la causa? Scorreranno fiumi di cioccolato? Triste, sì, ma la guerra finalmente è finita!

È del 26 marzo 2012, poche settimane prima della Pasqua, il verdetto definitivo sulla causa intentata dalla Lindt & Sprüngli contro la Hauswirth. La parola fine è stata finalmente scritta su questa bizzarra vicenda svizzera, denominata da tutti i giornali “la guerra dei coniglietti dorati”.

Si è trattato di una causa sostenuta dal colosso del cioccolato Svizzero di Zurigo Lindt & Sprüngli contro un piccolo cioccolatiere austriaco, Hauswirth, colpevole di aver prodotto, vestito e commercializzato coniglietti di cioccolato in tutto simili a quelli prodotti fin dal 1953 in Svizzera.

Il “Gold Bunny” Lindt, buono buono buono e, sì, in effetti anche carino (ma in fondo è un pezzo di cioccolata!) diventato famoso in tutto il mondo e prodotto da decenni dal colosso svizzero era stato “clonato” dalla casa austriaca, che aveva creato un prodotto quasi uguale, ma con qualche variante: in sostanza il fiocco patriottico rosso, bianco, rosso

Il contenzioso si trascina dal 2000 con alterne vicende. Finalmente la Corte di Cassazione Viennese ha dato ragione alla Lindt e segnato il destino del coniglietto austriaco che dovrà subire un completo restyling.

Sarà questa qui sotto la sorte del coniglietto Hauswirth, o basterà cambiargli l’abitino?

In porta c’ero io, un libro di Pedro Lenz

Pensando alla lingua come esperimento, come invenzione, vorremmo consigliare un romanzo di un autore svizzero Pedro Lenz con il suo ultimo libro In porta c’ero io (Gabriele Capelli Editore, Mendrisio)  vincitore del Premio Schiller 2011.

Il libro, cosa rara e inusuale, è stato scritto in svizzero tedesco, una lingua che non viene normalmente usata per scrivere, ma è usata solo come lingua parlata.

L’autore in un’intervista ha spiegato bene che questa scelta dell’uso del dialetto non nasce per voler appoggiare  posizioni isolazioniste della Svizzera, ma perché con esso sentiva di cogliere la lingua nella sua accezione più viva e quotidiana.

La storia, ambientata negli anni Ottanta, racconta di un ex tossicodipendente che ritorna nel proprio paese vicno a Berna dopo aver scontato un anno nel carcere di Witzwil.