Uscire dalla crisi

Un missionario comboniano vive per anni in una baraccopoli, occupandosi di alcuni tra gli ultimi del pianeta. Un amministratore pubblico italiano si barcamena nella confusione della nostra politica. Ci saranno due esperienze più diverse? Eppure proprio due persone così si sono unite col fine di scrivere un libro sulla crisi che stiamo attraversando. Indubbiamente un libro di attualità: se ne  parla molto di crisi, di questi tempi. E se ne parla con riferimento all’economia, che sembra non voler ripartire, ma anche con riferimento alla società, che deve trovare nuove forme di solidarietà e di convivenza, e alla cultura, che sembra non avere più una bussola, persa com’è negli orizzonti amplissimi dei nuovi mezzi di comunicazione.

E che avrà mai da dirci questa strana coppia su tutto questo? Ci propone qualche idea su come superare questa crisi partendo da un presupposto diverso. Per gli autori non siamo nel mezzo di un problema economico o sociale risolvibile con i criteri cui siamo abituati. Siamo di fronte a cambiamenti che sono qui per restare e che richiedono un nuovo approccio. In economia, tutto un sistema di produzione del valore sta cambiando. Nella società si deve cercare una forma di solidarietà, che sappia far fronte al fatto che si vivrà sempre, o almeno molto a lungo, gomito a  gomito con chi vede la vita in maniera radicalmente diversa da noi.

Tutto questo, per gli autori, discende da una crisi del nostro modello antropologico. Non si puo’ vedere solamente l’uomo al centro dell’universo, signore assoluto. Questo è da troppo tempo il nostro modello, che poi porta ognuno di noi a mettere se stesso al centro di tutto, col corollario di distruggere l’ambente e le relazioni fra gli esseri umani. Ma non regge più. Per gli autori, bisogna vederci in maniera nuova in questo mondo, come custodi di beni che sono più grandi di noi: il pianeta e il futuro dell’umanità. Se vediamo le cose in quest’ottica ci comportiamo diversamente: non cerchiamo più l’utilità, il profitto, immediati per le nostre azioni; piuttosto cerchiamo di capire prima di tutto l’impatto di queste ultime sui nostri simili e sull’ambiente.

Ciò ha implicazioni di ampia portata, a partire dal calcolare il profitto di un’attività economica non solo sulla base del valore immediato del ritorno dell’investimento ma anche sul guadagno o la perdita aggregata che provoca sulla comunità. Un tempo l’economia ci parlava di esternalità positive o negative per descrivere gli effetti delle attività economiche sull’ambiente esterno. Se ne cercava una misura. Magari si controbilanciavano quelli negativi (inquinamento, ad esempio) con la tassazione. Questa nuova ottica cerca invece di far sì che uno pianifichi i propri obiettivi prendendo subito in considerazione anche questi elementi, senza lasciarli da parte, per poi fornire una qualche riparazione forzatamente tardiva e parziale.

Ed è curioso vedere come il linguaggio di questi autori, a volte molto (un po’ troppo) filosofico, si avvicini per certi versi alle note sullo shared value di Michael Porter, il guru della competititvità di azienda, che recentemente è giunto a conclusioni simili. Ma il libro non si dilunga su nuove teorie economiche. Vuole anche essere una guida pratica su come uscire da questa crisi: cosa fare nella vita di tutti i giorni per rimettere pianeta e futuro comune al centro della nostra vita? Risparmiare l’acqua, usare meno energia, ridurre la quantità di Co2 implicita nelle nostre vite, favorire processi a basso impatto ambientale, mangiare organico e così via sono atti che ognuno può fare. Sembra che gli autori ci richiamino a un’etica della responsabilità, fatta da scelte quotidiane concrete. Scelte che comprendono anche l’attenzione per gli ultimi. Se la società nel suo inseme non è chiamata a partecipare, non v’è più benessere possibile.

In definitiva quella che loro propongono è una navigazione a vista, basata su un continuo cercare soluzioni, tenendosi tutte le possibilità aperte, anche se si sa dove si vuole andare: un mondo a misura di essere umano.

In questo l’esperienza in Africa del missionario è interessante. Il modo in cui gli abitanti delle baraccopoli sopravvivono è una forma di continua collaborazione informale, a schemi aperti: si cerca la via ogni giorno, collaborando assieme in maniera responsabile. In sociologia questo modo di procedere si chiama “informal open ended cooperation”. Nelle baraccopoli questo lo si fa di già. Si naviga a vista per scoprire come sopravvivere unendo le forze. Gli autori dicono che possiamo farlo anche noi. Per loro, sono le baraccopoli che stanno facendo la parte migliore della nostra storia.

Se si pensa che almeno il 30% dell’umanità vive in quella condizione, non c’è da stupirsene piu’ di tanto.

Cercate gossip su Google…

… e troverete in 0.13 secondi 306.000.000 di risultati! No, non ho realmente intenzione di raccontare se la Canalis tornerà con Vieri o se il nuovo amore di Belen è solo una trovata pubblicitaria. Infatti, come la maggior parte delle persone sane di mente, mi sollazzo con tali notizie solo quando aspetto per ore il mio turno dal parrucchiere e per caso mi sono dimenticata il libro che mi sto gustando. E la mia non è assolutamente spocchia, non vanto una pretesa superiorità intellettuale (tanto che non sono completamente a digiuno di questi argomenti!), ma il gossip, il pettegolezzo nostrano, mi dà l’occasione di riflettere sulla «prevalenza del cretino», quello che, in realtà, mi fa veramente imbestialire.

Scrivevano gli indimenticati Fruttero e Lucentini nella prefazione del libro La prevalenza del cretino (Mondadori, Milano 1985), che la bêtise é figlia del progresso, infatti, « è stato grazie al progresso, che il contenibile ‘stolto’ dell’antichità si è tramutato nel prevalente cretino contemporneo, personaggio a mortalità bassissima la cui forza è dunque in primo luogo brutalmente numerica; ma una società che egli si compiace di chiamare ‘molto complessa’ gli ha aperto infiniti interstizi, crepe, fessure orizzontali e verticali, a destra come a sinistra, gli ha procurato innumeri poltrone, sedie, sgabelli, telefoni, gli ha messo a disposizione clamorose tribune, inaudite moltitudini di seguaci e molto (molto ! ndr) denaro. Gli ha insomma moltiplicato prodigiosamente le occasioni per agire, intervenire, parlare, esprimersi, manifestarsi, in una parola (a lui cara) per ‘realizzarsi’. Sconfiggerlo é ovviamente impossibile. Odiarlo é inutile. Dileggio, sarcasmo, ironia non scalfiscono le sue cotte d’inconsapevolezza, le sue impavide autoassoluzioni». Mi scuso per la lunga citazione, ma non sarei riuscita ad esprimermi meglio…

Quanti ne abbiamo visti di questi personaggi apparire e sparire, essere intervistati e osannati, sfilare in televisione e sui giornali, insinuarsi nelle nostre vite sempre con un consiglio, una parola e un sorrisetto pseudo intelligente sulle labbra : politici, gente di spettacolo, sedicenti artisti, filosofi, psicologi tutti con un buona novella da donare, tutti tragicomicamente compresi nei propri ruoli.

Odiarli è inutile ? Sarcasmo e ironia non li scalfiscono ? La soluzione dunque sta solo a noi.

Signori, il gossip ci sta, è divertente a volte rilassante. La bêtise é tollerata, ci si può scivolare inconsapevolmente, ma quando tutto ciò diventa ‘sistema’ e distoglie costantemente l’attenzione dalla realtà, allora vuol dire che siamo arrivati alla drammatica necessità di rivedere le priorità, innanzitutto le nostre.

Benvenuto allora  alla farfallina di Belen, al lato B di Pippa Middleton o alle labbra rifatte della Minetti (buon per loro che con tali scemenze e poca fatica riescono a guadagnarci, almeno in visibilità), ma che tutto ciò sia e rimanga un contorno (anche piccante va bene), un amusement durante la pausa caffé, che resti relegato in un mondo ‘a parte’ e che non prevalga sulla realtà.

Nella nostra recente storia passata troppe volte ci siamo fatti distogliere dal contorno e non abbiamo prestato attenzione al piatto principale, che spesso abbiamo ingoiato senza neppure renderci conto di cosa mangiavamo, insomma evitiamo di cascare nella trappola e conserviamo il nostro senso critico. Non abbiamo paura di spegnere la Televisione, o chiudere un giornale, di far sentire la nostra voce di dissenso quando è troppo. Senza pedanteria, con leggerezza e umanità impariamo a distinguere.