Libere

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Domenica ha vinto Macron in Francia ma soprattutto hanno vinto, guadagnando la vita, 80 studentesse prigioniere di Boko Haram, il gruppo fondamentalista nigeriano : sono state liberate nel quadro di uno scambio di prigionieri col governo nigeriano.

Questa storia, fa paura come il più terribile degli incubi. E’ agghiacciante e poco comprensibile per noi donne dell’occidente. E’ cosi’ imbarazzante che sia potuto accadere un rapimento del genere, che quasi sarebbe più (ignobilmente) comodo se le ragazze divenissero trasparenti e invisibili, per noi che viviamo in un altro mondo, ove queste cose non accadono, ma anche per la Nigeria, che non è stata in grado di impedire questa follia.imgres

Proprio domenica, a pranzo, con una donna di quella parte di Africa (un’esperta di cose sociali impegnata in prima linea in vari progetto di sviluppo), abbiamo riassunto la parabola criminale di Boko Haram. A ben guardare, è radicata nella storia della Nigeria degli ultimi decenni: la corruzione dilagante nel governo centrale, faceva sì che nelle province arrivassero solo funzionari corrotti delle élite della capitale: i pochi che avevano studiato nel mondo coloniale. Col tempo, la gente delle province più sfruttate si è industriata per mandare i propri figli a studiare, anche all’estero, perché potessero sostituirsi a queste élite corrotte. Ma la corruzione in Nigeria è sistemica, e quindi anche gli studenti di ritorno si sono dedicati con cura a questa attività, che sembra essere un vero e proprio sistema parallelo di governo. Rabbia assoluta e una domanda: se anche i figli delle nostre comunità sono corrotti: dov’è l’errore? ed ecco al risposta dettata dall’ignoranza, ma semplice e immediatamente comprensibile d tutti (anche se sbagliata): la corruzione è legata all’educazione e in particolare a quella occidentale! Da qui Boko Haram, che significa: l’educazione è proibita. Da qui il peggior fondamentalismo. da qui il legame con l’islamismo. Da qui il rapimento delle studentesse. Cronaca di un fallimento globale: dell’occidente e di ciò che ha lasciato dietro di sé in Africa, ma anche delle élite africane e del mondo che hanno costruito in decenni di autogoverno.

L’arte è Africa: il teatro a Ouagadougo in Burkina Faso

Ognuno di noi ha un destino segnato, nel mio c’è un marito che viaggia e lavora in Africa. Qui di seguito il suo testo delle cose sorprendenti e belle che ha visto in questi giorni a Ouagadougo:

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Si chiama Koteba: e’ il teatro del Mali e del Burkina Faso improntato a temi sociali. Anima molti dei lavori in scena alle récréatrales di Ouagadougou. Nella capitale del Burkina Faso ogni due anni un’intera strada viene chiusa al traffico per 10 giorni e diviene sede di un festival teatrale. È un bel viale, largo e fiancheggiato da case basse, tutte col giardino e una corte, come si usava un tempo in molte città africane, prima dello sviluppo selvaggio degli ultimi anni. Ogni abitazione ospita uno spettacolo, mentre sulla strada si tengono concerti o performance artistiche. Ogni tanto passa una banda di fiati e percussioni, che cammina avanti e indietro suonando a un ritmo indiavolato.

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Baracchini di venditori di cibo spargono nell’aria l’odore della carne o delle verdure arrostite sulla brace. Ambulanti vendono acqua o birra (la Brakina!). Bambini giocano per strada, adulti vanno qua e là, artisti di tutto il mondo francofono dell’Africa e oltre si abbracciano, raccontandosi cosa hanno fatto per tutto il tempo in cui non si sono visti.

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Al festival ho visto un  lavoro koteba, ispirato a Frantz Fanon e al suo “I dannati della terra”. La storia (scritta da Ali Ouedraogo e Freddy Sabimbona.) è quella di due compagni di lotta per la libertà e la democrazia che si ritrovano dopo tanto tempo: Franck e Tiibo. Il primo è appena rientrato nel paese dopo un esilio dovuto a persecuzione politica, mentre il secondo vi è sempre restato, passando attraverso detenzione e tortura, per poi integrarsi nella nuova Africa di oggi, fatta di democrazia puramente  formale ed esclusione brutalmente sostanziale per la maggior parte delle persone. Il primo desidera riprendere la lotta contro un potere sordo alle istanze sociali, in mano a poche élites rapaci che si sono indebitamente impadronite del mito legittimante dell’indipendenza, il secondo è ormai scettico e gli risponde che bisogna entrare nel sistema e prenderne ciò che si può.

Il pubblico era rapito e rispondeva alle invocazioni degli attori. Ragazzini adolescenti erano spettatori attentissimi. Mi dicono che sia così per ogni spettacolo.

Mentre vi assistevo, pensavo che eventi come questi sono il miglior antidoto contro il radicalismo islamico che si avvicina, come un’ombra maligna, ma anche contro il mettersi in mano a trafficanti di esseri umani per tentare una migrazione disperata. Creano coscienza civile e senso di appartenenza una comunità di destino e di vita.
Stasera c’è Pinocchio: sembra che Lucignolo sia un giovane DJ e il grillo parlante una ragazza seria, che studia e vuole una vita migliore. Il gatto e la volpe sono due faccendieri legati a giri d’affari loschi, come il traffico di esseri umani (e migranti). Credo che a Carlo Lorenzini (Collodi) piacerebbe moltissimo.

I favolosi quattro

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Il film “The Beatles: Eight Days a Week” è arrivato anche nelle sale di Ginevra. Assieme alle mie due figlie, di 17 e 19 anni, siamo state a vederlo. Ho fatto un po’ fatica a spiegare loro che il regista, Ron Howard, era il personaggio di Rickie Cunningham della serie televisiva Happy Days: non ne sapevano niente e questo te la dice lunga di quanto siano lontane dagli anni Sessanta.

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Ron Howard in Rickie Cunningham

Il Film-documentario nasce con la collaborazione fra Paul McCartney, Ringo Star e le vedove Yoko Ono Lennon e Olivia Harrison. Dura due ore e al termine è possibile rimanere seduti per vedere  30 minuti di un concerto dal vivo, mai mostrato prima. Il tempo ci è volato, il documentario ha ricucito una trama di episodi fatta di tantissimi filmati, di fotografie che ripercorrono la storia del gruppo, ma anche delle scene tratte dai loro trasferimenti, con i fans in delirio che si strappano i capelli ai concerti, con le loro personalità e l’energia che sapevano trasmettere. Insomma, ci è piaciuto: a tutte e tre. Immancabili, le scene del concerto dal tetto della Apple, la loro casa discografica, nel entro di Londra, con la gente che si ferma per strada, o esce dalle finestre dei palazzi vicini per riuscire a vederli da vicino. Sono incredibili i quattro: completamente diversi da quelli degli albori: coi capelli lunghi, paludati in un abbigliamento che prefigura gli ani settanta (Lennon e Harrison indossano due pelliccioni), cantano e suonano Get Back con un’energia unica.

Nel film ci sono anche delle belle testimonianze; alcune toccanti, come quelle dell’attrice nera Whoopi Goldberg, che spiega il significato di partecipare ad un loro concerto per una ragazza nera come lei,  tra migliaia di bianchi:  per lei i favolosi quattro furono fonte di ispirazione e coraggio. E in effetti i Beatles rifiutarono, in tournée nel sud degli USA, di suonare in locali per soli bianchi (ci sono delle scelte che ti mettono alla parte dei giusti davanti alla storia).

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Whoopi Goldberg

Dal documentario si comprende bene perché decisero di ritirarsi dai concerti e lavorare solo in studio, sulla musica: la popolarità e la macchina dei concerti erano divenute un peso esistenziale. E a quel punto che loro passano al genio, con albums che rivoluzionano la musica pop e non solo. Questo nel documentario è ben spiegato. Divengono produttori di pezzi musicali senza tempo. In certi momenti si prova grandissimo rispetto per questo gruppo di giovani che improvvisamente si sentono investiti di capacità fuori dal comune e le mettono a frutto.

Appena uscite, con le figlie, ci siamo confrontate sul mito dei Beatles e ci siamo accapigliate sul fenomeno  One Direction, una band di pochissimi anni fa dalla popolarità enorme fra gli adolescenti.

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One Direction

E’ partita subito la polemica: una figlia li accostava ai Beatles per la velocità con cui sono arrivati al successo, il numero dei fan e il numero dei dischi venduti; l’altra non accettava neanche di metterli a confronto, accusando i One Direction  di essere stati solo un prodotto commerciale. Io non riuscivo a pendere né per l’una né per l’altra : come si possono comparare due fenomeni intercorsi a mezzo secolo di distanza l’uno dall’altro? Anche il documentario ci fa capire che il tutto è contestualizzato in un’altra epoca. Erano gli anni del baby boom,  il mondo era pieno di giovani che praticamente non avevano conosciuto la guerra e che volevano il cambiamento, con quella stessa energia che oggi vedo – mi viene di pensare mentre rientriamo in macchina – negli occhi e nella determinazione di tutti quei giovani che attraversano il Mediterraneo per scappare dall’Africa  venire da noi in Europa. Anche loro vogliono un mondo diverso, ma non possono cercarselo a casa.

Tutti a Venezia: si apre la 56 Biennale d’arte

2015-stage-biennale-di-venezia4Tutti pronti al via: sabato 9 maggio si apre la 56 Biennale d’arte di Venezia. E’ l’appuntamento più importante per l’arte contemporanea, tutti dovrebbero andarci perchè è un’occasione per capire attraverso la sensibilità degli artisti, il nostro presente, ciò  che è appena passato e cosa ci aspetta.

Quest’anno sarà molto la sensibilità degli artisti africani a guidarci. E cosi, mentre all’Expo a Milano si è appena aperta la grande mostra “Africa. La terra degli spiriti” ripercorrendo l’arte africana dal Medioevo ad oggi ( Museo MUDEC), la Biennale ha come suo curatore il nigeriano Okwui Enwezor e sabato premierà con Leone d’oro alla carriera l’artista ghanese El Anatsui.

Ho visto un lavoro di El Anatsui per la prima volta proprio a Venezia l’opera si intiolava :La bandiera per un nuovo potere mondiale. L’opera era del 2004 ed era esposta in una bellissima mostra dal titolo Artetempo, sulla facciata di Palazzo Fortuny. Era un arazzo fatto di alluminio e filo di rame tessuti assieme con scarti industriali come lattine e tappi di bottiglie. Il materiale viene pressato e cucito assieme. Un lavoro di riciclaggio che affascinò chiunque vide l’opera scintillare appesa a palazzo Fortuny. Oltre a tessere, El Anatsui, lavora anche con oggetti comuni come i vassoi o specchi su cui incide segni e simboli derivati dalla propria cultura.

El Anatsui, In the World But don't Know the World,2011
El Anatsui, In the World But don’t Know the World,2011

Il titolo della Biennale quest’anno sarà All the world’s future e dal sito ufficiale si legge:“Okwui non pretende di dare giudizi o esprimere una predizione, ma vuole convocare le arti e gli artisti da tutte le parti del mondo e da diverse discipline: un Parlamento delle Forme. Una mostra globale dove noi possiamo interrogare, o quanto meno ascoltare gli artisti provenienti da 53 paesi, e molti da varie aree geografiche che ci ostiniamo a chiamare periferiche. Questo ci aiuterà anche ad aggiornarci sulla geografia e sui percorsi degli artisti di oggi, materia questa che sarà oggetto di un progetto speciale: quello relativo ai curricula degli artisti operanti nel mondo. Un Parlamento dunque per una Biennale di varia e intensa vitalità.”

Tra i padiglioni segnalati sembra molto interessante il padiglione turco dove si vedrà il lavoro di Sarkis, un’artista che è da tempo presente a Ginevra nella collezione del museo Mamco .

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Sarkis, l’Atelier depuis 19380, collezione Mamco Ginevra

L’artista è turco di origine armena: il fatto che rappresenti la Turchia è già un simbolo molto forte per la Biennale di Venezia. Il suo lavoro Rainbow, sarà un’installazione fatta di immagini, specchi, neon e specchi atti ad esplorare la magia dell’arcobaleno. E ancora una volta questo lavoro di Sarkis si lega bene a Ginevra dove con le pioggie frequenti è facile rimanere colpiti dalla bellezza  dell’arcobaleno .

Erri De Luca, preghiera laica

barcone-immigratiArriva il bel tempo e noi pensiamo inevitabilmente alle vacanze, alla spiaggia, al mare… non ci sfiora il sospetto che per migliaia di persone è invece tempo di andare, di lasciare tutto, di cercare una via di scampo in un altro luogo, aldilà di quel mare nostrum che un tempo univa le civiltà e che ora è diventato una fossa comune. Nonostante le tragedie il fiume umano, costituito da centinaia di disperati, non si arresterà.

Noi possiamo fare poco per dare una mano, ma quello che possiamo fare è cercare di creare una coscienza comune che induca l’intera Europa ad attivarsi per trovare una soluzione per risparmiare preziosissime vite umane.

Per chi non ha avuto occasione di ascoltarla recitata dall’autore, ecco il testo di una poesia di Erri De Luca, un preghiera laica al mare, affinché accolga le anime di coloro che non ce l’hanno fatta.

Mare nostro che non sei nei cieli
e abbracci i confini dell’isola e del mondo
sia benedetto il tuo sale
e sia benedetto il tuo fondale
accogli le gremite imbarcazioni
senza una strada sopra le tue onde
i pescatori usciti nella notte
le loro reti tra le tue creature
che tornano al mattino
con la pesca dei naufraghi salvati

Mare nostro che non sei nei cieli
all’alba sei colore del frumento
al tramonto dell’uva di vendemmia,
Che abbiamo seminato di annegati
più di qualunque età delle tempeste
tu sei più giusto della terra ferma
pure quando sollevi onde a muraglia
poi le riabbassi a tappeto
custodisci le vite, le visite cadute
come foglie sul viale
fai da autunno per loro
da carezza, da abbraccio, da bacio in fronte
di padre e di madre prima di partire

La vita o è stile o è errore

imagesLa nostra immagine, come italiani deriva dal nostro stile di vita. Cinema e moda l’hanno portata nel mondo, tirandosi dietro anche altri settori come l’alimentazione, il mobile e così via.

Uno stile di vita complesso che si riassume in una parola: buongusto. Si applica a come mangiamo, a come ci vestiamo, a come arrediamo ma anche a come ci approcciamo alla vita. Si suppone che noi italiani sappiamo farlo con leggerezza e appunto “buongusto”.

Ora, il problema è che oggi rappresentare questo stile nel mondo è divenuto difficile. Da un lato internet rende impossibile farlo senza essere banali: le cose di base sull’Italia sono disponibili ovunque. Dall’altro lo scenario è cambiato: elementi di quello stile che ci ha resi unici e famosi ci sono ancora, ma anche altri ce li hanno. Faccio un esempio: il nostro vino è ormai in competizione con quello di mezzo mondo e hai voglia a dire che da noi è una tradizione: sai cosa gliene importa a chi compra il vino a Rio de Janeiro? Questo si applica a tutti i nostri tradizionali punti di forza. La moda tiene, si dice: beh, insomma. Campa in mani straniere e dove è ancora italiana si dibatte nella discussione sull’opportunità di riportare tutte le produzioni in Italia. Il mobile va: certo, e il salone del mobile è ancora un grande evento, ma ormai l’unico nel suo genere, e purtroppo è anche cronicamente scollegato dal sistema moda, con cui dovrebbe interagire. Abbiamo slow food: super vero. Ma anche tante porcherie che avvelenano il nostro cibo; chi le mangia più le mozzarelle prodotte accanto alla  terra dei fuochi? E tutto il mondo sa della terra dei fuochi: a me ne hanno parlato amiche americane!

La domanda allora è: ma c’è un modo di ricostruire uno stile italiano per usarlo in modo da ri – affermarci nel mondo? Gli americani chiamano soft power l’attrattività culturale di un paese. Un potere basato sulla seduzione e non sulla potenza militare o economica.

Con lo stile italiano noi il soft power ce lo avevamo. Ma adesso come lo ricostruiamo? Come ricreiamo un soft power per ricavarci un nuovo posto nel mondo di domani?

La vita o è stile o è errore, si diceva un tempo. Speriamo lo capiscano anche i nostri politici.

Cartolina

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ida-burkinaFaso-pho-agriculture Questa cartolina è per il popolo del Burkina Faso. Dopo quasi tre decenni di falsa democrazia, con tanto di elezioni e strutture di partecipazione politica sempre manipolate, avete deciso di cambiare strada. Lo avete fatto insorgendo pacificamente e vi siete buscati una fila di fucilate. Avete insistito con coraggio e adesso siete nel mezzo di una transizione difficile. Il vecchio non c’è più e il nuovo indossa un’uniforme dell’esercito: dice che favorirà una transizione democratica, ma chissà. Siete soprattutto voi giovani (siete anche la maggior parte della popolazione nel vostro paese, il contrario di ciò che accade in italia) a chiedere un nuovo Burkina Faso, un paese dove costruire un futuro decente per tutti. Avete addosso gli occhi della comunità internazionale, che può aiutare ma che ha anche inconfessabili interessi in casa vostra. Io vi auguro di riuscire. Ve lo auguro per la terra dei puri (questo significa Burkina Faso, mi dicono) e per l’Africa intera, che cerca di liberarsi dalle grinfie di una classe dirigente cleptocratica, sotto gli occhi di una comunità internazionale cinica e troppo spesso complice del peggio.

Chiacchiere del Lunedì

Delphine Boël, The Golden Rule blabla
Delphine Boël, The Golden Rule blabla

Vogliamo mettere in primo piano oggi la vicenda delle oltre 200 ragazze nigeriane rapite dal gruppo armato di estremisti di Boko Haram mentre erano a scuola nel villaggio di Chibok, vicino al confine con il Camerun, le quali, a dispetto delle minacce si erano recate in classe per poter sostenere gli esami del liceo. Tutto il mondo ne parla e si sta mobilitando affinché queste giovani vengano ritrovate al più presto, ma sembrano svanite nel nulla.

Michelle Obama

Sabato mattina la First Lady, Michelle Obama, ha preso un’inconsueta iniziativa. È apparsa in vece del marito Barack nel consueto spazio televisivo che occupa il Presidente degli Stati Uniti settimanalmente, invitando tutti i a fare pressione ed ad aiutare il governo Nigeriano nel ritrovamento delle ragazze. Ma già all’inizio della settimana Michelle aveva twittato una foto in cui regge un cartello su cui compare #BringBackOurGirls. Sabato anche papa Francesco aveva fatto sentire la sua voce riguardo alla vicenda. Ancora violenza, ancora sulle donne, in un continente che non riesce a trovare la pace…

 

Grrcchhrrblongbingbing!

PssstGDForse chi si aggira dalle nostre parti (intorno a Ginevra e regione, intendo) si sarà stupito vedendo dei cartelloni pubblicitari un po’ bizzarri. Su fondo bianco, infatti, grandi caratteri attirano l’attenzione con parole strambe tratte dal linguaggio colloquiale o da quello dei fumetti. Solo in un secondo tempo, a ben guardare, ci si accorge che essi sono un invito a recarsi al 28° Salone del libro di Ginevra che si terrà dal 30 aprile al 4 maggio al Palaexpo.

Una kermesse che per anni ha sofferto a causa della marginalità del mercato librario della Svizzera Romanda, ma che da qualche tempo ha ripreso vigore grazie agli sforzi delle due curatrici: Isabelle Falconnier, presidentessa del Salone, et Adeline Beaux, direttrice, che si sono profuse in un duro lavoro per cambiare completamente il volto di quella che sembrava una manifestazione destinata a morire.

Compito duro per queste due coraggiose soprattutto se si pensa alla situazione di Ginevra all’interno del sistema Svizzero. Territorio francofono, ma con tratti ben distinti, culturalmente e socialmente, dalla vicina Francia. Inoltre luogo di incontro per eccellenza di culture diverse che ne hanno un po’ appannato l’identità. Con tali presupposti la fiera, che aveva assunto nel tempo una patina antica, quasi polverosa, ha ricevuto un nuovo volto e una nuova vita grazie alla ventata idee apportate dalle due curatrici.

Basta dare uno sguardo al sito della fiera e alla lista degli avvenimenti programmati (dagli incontri con gli scrittori, alle tavole rotonde, ai premi letterari e sì anche agli atelier di bricolage) per comprendere quanta strada sia stata fatta.

Spazi dedicati al viaggio, al fumetto, al benessere personale, alla cucina, al libro giallo (con il suggestivo titolo di Scène du crime). E ancora il Padiglione della cultura araba, un nuovo spazio composto da una libreria tematica, da una palcoscenico e da un caffè-ristorante, in cui l’intenzione è quella di offrire momenti di scambio e scoperta interagendo con intellettuali e scrittori arabi.

E poi una finestra aperta sull’Africa e i suoi autori e sul Giappone, ospite d’onore di questa ventottesima edizione.

Insomma pare che il divertimento, come era intenzione delle curatrici, sarà assicurato un po’ a tutti!

Orrore in Kenya

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Jean Fautrier, Testa d’ostaggio,1945

Dopo un week end di sangue che ha portato alla morte di tanti tanti civili indifesi in due differenti parti del mondo, oggi non ce la sentiamo di affrontare altri argomenti e lasciamo la parola a chi veramente conosce la situazione, almeno in Africa, per un aggiornamento di prima mano.

Un attentato terroristico, odioso e vigliacco come tutti gli atti di terrorismo, ha colpito il Kenya. Lo abbiamo visto tutti in televisione e su internet. L’attacco a un centro commerciale frequentato dalla comunità internazionale di Nairobi è un modo per colpire il Kenya, che è il centro logistico per il business e il turismo in Africa Orientale e che è intervenuto  militarmente in Somalia per riportare la pace. I terroristi sono infatti riconducibili all’organizzazione somala di al shabab, una delle più scellerate cellule della galassia di Al Quaeda. E adesso l’Africa è al centro delle strategie di Al Quaeda: è un continente con povertà e soldi al tempo stesso: gente disperata e risorse. Molti paesi presentano caratteristiche fisiche favorevoli a nascondersi: baraccopoli, deserti, montagne. Nel Sahel Al Quaeda si riorganizza: dopo l’intervento francese in Mali i suoi guerriglieri si stanno riorganizzando a cavallo di Mali, Libia, Algeria e Niger. In Africa Orientale c’e’ la Somalia, enorme hub che cerca adesso di espandersi nella regione. E il panorama è più vasto. Sarà mica che Al Quaeda ha scelto la via dell’Africa come hub per il proprio sviluppo. Avremo tanti Afghanistan in Africa? Per il momento il Kenya reagisce bene. Combatte, lotta. Ma una cosa è certa per le classi di governo africane: la lotta al terrorismo passa anche dallo sviluppo e dalla lotta alla povertà. Levare braccia al terrorismo, vuol dire eradicare la disperazione, la povertà estrema. Se non si comincia a portare lavoro in Africa e a gestire bene gli stati, ci troveremo davanti a una realtà inconcepibile.