Il calvario dei migranti e la bellezza della solidarietà passano accanto alla vita di un ragazzino di Lampedusa, che gioca e cerca una propria dimensione, mentre affronta le paure e le sfide della crescita. Accade in un bel film-documentario di Fancesco Rosi, Fuocammare, ove alla vita grama dei pescatori e degli isolani si accosta alla sofferenza, incommensurabile, dei migranti in arrivo dal mare. Due dimensioni di vita si accostano, sembrano lontane anni luce. Ma è la compassione, quella meravigliosa capacità di sentire la sofferenza altrui ed esserne smossi nel profondo, che crea un ponte attraverso il quale storie lontane si incontrano. Così si vedono gli addetti della marina Militare e della guardia costiera italiane, con i tanti volontari che si adoperano senza sosta. E si vedono i cadaveri di tanta povera gente stipati nella stiva di una carretta del mare, si vedono le mamme sfinite coi bambini moribondi al collo, si ode il canto di un gruppo di nigeriani che rivive, esorcizzandole, le peripezie atroci d’un viaggio degno d’una discesa nell’inferno. Si vede una donna piangere un pianto che non si immaginerebbe possibile per un essere umano. E a un certo punto eccolo: Pietro Bartolo, il medico condotto dell’isola. Uomo di mezza età, con gli occhiali, una faccia da persona comune. E’ proprio lui che pronuncia le parole più belle sul perché si devono aiutare queste persone; lo fa in maniera semplice e bellissima, come fanno tutti coloro che dinanzi al male e al dolore scelgono la via dell’umana compassione. Nessun uomo è un isola, disse un famoso poeta, e così questo dottore, isolano di Lampedusa, con le sue parole e il lavoro quotidiano in frontiera, col prendersi su di se’ il peso dell’umanità più derelitta, dalla quale sente di non essere disgiunto, ci sembra grande quanto una pietà michelangiolesca. In quel momento il documentario e’ un film, ossia un opera d’arte.
Stolto e infelice e’ chi questi sentimenti non li capisce e usa questa tragedia per farsi una carriera politica.