L’11 gennaio 1999 all’Istituto dei Tumori di Milano si spegneva Fabrizio De André che ancora oggi è difficile da etichettare, tanto la sua arte è andata oltre tutto ciò che era noto, e che è riduttivo considerare un “cantautore”. Senz’altro può essere definito uno dei capisaldi della canzone “d’autore” italiana, di cui stravolse i canoni. Canzone italiana, che fino all’apparire di Fabrizio De André non aveva fatto molta strada oltre i papaveri e papere, e che con lui scoprì finalmente i temi sociali e politici, tanto da renderlo un punto di riferimento per la contestazione giovanile.
Le ballate cupe, dense di anime smarrite, di esclusi e derelitti erano profondamente influenzate non solo dall’opera di Bob Dylan e Leonard Cohen, ma anche dalla tradizione degli “chansonnier” di oltralpe. Le fonti della sua poesia erano eterogenee. Nei suoi dischi ci sono reminiscenze delle ballate medievali e della tradizione provenzale, l’ispirazione gli derivava dall’intero suo mondo culturale: l'”Antologia di Spoon River”, i Vangeli apocrifi, le poesie di Cecco Angiolieri, i canti dei pastori sardi, Baudelaire e i “Fiori del male”, Fellini con i “Vitelloni” e ancora la musica mediterranea con gli strumenti della tradizione nordafricana, greca, occitana. Tutti temi cari all’artista che seppe evolvere anche musicalmente senza mai piegarsi alle mode del momento. De André demolì tutti i cliché tradizionali tanto che le motivazioni su cui si posa il nobel per la letteratura conferito nel 2016 a Bob Dylan si addicono perfettamente anche alla sua opera, in quanto anch’egli ha avuto la capacità di creare una nuova espressione poetica nell’ambito della grande tradizione della canzone italiana. La poetica degli ultimi, degli esclusi che lo contraddistingue e lo accomuna a un altro grande della letteratura – Pier Paolo Pasolini – si trasforma in lui in pura poesia.
Condivido in piedo. E’ stato un referente di tutta un’epoca, senz’altro della mia generazione.