… peperoni imbottiti alla fermata della funicolare!

L’aria che respiriamo dentro le nostre case potrebbe essere tre volte più inquinata di quella all’esterno dei nostri appartamenti, lo dice uno studio universitario, e ciò sarebbe dovuto all’eccessivo utilizzo di deodoranti e detersivi. In cucina poi la situazione sarebbe esplosiva! Infatti i fornelli a gas rilascerebbero più monossido di carbonio di quanto se ne respirerebbe in una strada del centro!

Ahimé triste destino allora per chi è costretto a spadellare!

E allora? Bhe allora ci dobbiamo consolare cucinando qualcosa…

Uno dei profumi che mi ri-catapulta direttamente alla mia infanzia è quello del peperone arrosito sulla fiamma che viene spelato e poi condito con aglio e olio di oliva. Quando sento quel profumo ancora oggi, in qualunque parte del mondo mi trovi,  ho la sensazione di essere tornata a casa. E a proposito di peperoni la mia prozia diceva che una ragazza non era pronta a maritarsi se non imparava a cucinare nel miglior modo possibile i peperoni imbottiti (cioé ripieni di melanzane, alla napoletana). Già il peperone per sua natura non é facilmente digeribile, ma posso assicurarvi che cotto in questo modo è davvero un bomba (unico rimedio: dopo pranzo andare a zappare, se decidete per la cena vi garantiamo una notte insonne e incubi gratis!). Seppellitemi però sotto una montagna di deliziosi peperoni !

Ecco qua la ricetta

4 peperoni gialli e 4 rossi (anche l’occhio vuole la sua parte)

1 kg di melanzane (attenzione devono essere quelle violette lunghe di Napoli che hanno un sapore un po’ piccante)

4 pomodori San Marzano (sapore agrodolce e pochi semi… fondamentali)

50 g di capperi sotto sale (che dovrete lavare per benino prima di utilizzarli)

100 gr di acciughe salate

100 g. di olive nere di Gaeta (che non sono nere ma viola scuro e molto aromatiche)

2 spicchi di aglio

100 gr di pangrattato

prezzemolo

una presa di origano

Olio di oliva

Sale e pepe

Innanzitutto tagliate le melanzane a lamelle spesse cospargetele di sale e lasciatele a riposare una mezz’ora in modo da levare l’eventuale gusto amaro. Lavate i pomodori scottateli in acqua bollente, pelateli e tagliateli a dadini. Lavate i peperoni e tagliatene la calotta superiore ripulendoli all’interno dei filamenti e dei semi, verranno poi imbottiti col ripieno e messi in forno.

Lavate le melanzane e asciugatele per bene, tagliatele a cubetti e friggetele in olio di oliva; appena dorate, scolatele dall’olio e mettetele su una carta assorbente. Nell’olio di frittura (lo so che lo vorreste cambiare, ma è proprio quell’olio lì che dà un altro sapore !) aggiungete l’aglio finché non é biondo (poi levatelo) e il pangrattato finché non si rosola.  Aggiungete le olive snocciolate e tagliate, le acciughe sminuzzate, i capperi, i pomodori e gli odori vari e fate cuocere (quando sarà cotto ve ne accorgerete). A fine cottura ri-aggiungete i dadini di melanzana fate insaporire per qualche minuto e togliete dal fuoco. Lasciate intiepidire il tutto poi riempite i peperoni, disponeteli su una teglia ben oliata, mettete il cappuccetto su ognuno di essi e spolverizzateli di pangrattato, infornate poi il tutto a 180 gradi per 30 minuti. Non siate golosi, aspettate il giorno dopo a mangiarli, ma soprattutto non metteteli in frigorifero (si ammoscerebbero!).

Fateci sapere poi se siete sopravvissuti !

Chiacchiere del lunedì

L’Ikea, le donne e il politically correct svedese…

L’argomento per le chiacchiere di oggi ce lo ha suggerito una cara amica. Simona infatti ci ha mandato il link ad un gustoso articolo apparso sulla versione digitale di Vanity Fair Italia che ci ha incuriosito e noi abbiamo cominciato a scavare per saperne di più.

Il colosso del mobile svedese Ikea, grazie alla tecnica del Photoshop, ha cancellato dal catalogo in distribuzione in Arabia Saudita tutte le immagini che contenevano le donne. Il risultato é che mentre sui cataloghi del resto del mondo negli specchi dei bagni accessoriati si riflette una figura femminile e nelle cucine attrezzate una mamma spadella per i suoi figli, in quello saudita si aggirano i fantasmi di queste donne eliminate per « rispetto ». Infatti i responsabili della ditta svedese nel rapporto annuale affermano: «Siamo stati molto fortunati a condividere esperienze e imparare da persone di molti paesi, culture e ambienti. Continuiamo a crescere e svilupparci con collaboratori, clienti, fornitori e partner in 41 paesi e tutti possono vedere le nostre radici svedesi… Ma tutti possono sentire l’accento di ciascuno di questi paesi ».

– Dunque siamo diventate un’accento?

– Ikea arriva in Arabia Saudita e cancella le donne occidentali riprodotte sul giornale di vendita. E’ chiaro che per la ditta svedese è una censura a fin di vendita, come una  rassicurazione  per il compratore.   Ma la questione è: un prodotto può davvero essere un cavallo di Troia? Può avere la forza di distruggere una tradizione culturale ed importarne una nuova?

– Brava! è esattamente quello che si sono chiesti un po’ in tutto il mondo! Perché cancellare le donne? Forse lasciando il catalogo così com’era in Arabia si sarebbe respirata una ventata di novità, e chissà magari l’inizio di qualcosa di diverso per le donne e la loro condizione.

– Penso che un oggetto in mano all’inganno della pubblicità non è più un semplice prodotto, ma diventa un veicolo che ti fa credere di poter essere un’altra persona: comprando quell’oggetto hai il diritto di  partecipare ad una vita migliore. Allora mi domando quanto abbiano influito i Tupperware nella emancipazione femminile italiana.

– Ikea si è pubblicamente scusata per questo scivolone, ma il fatto resta. Il management del brand ha preferito sottostare alle leggi del mercato piuttosto che battere una strada che lo avrebbe sicuramente reso meno accettabile dai compratori sauditi, ma forse molto più corretto verso le loro donne.

Comunque a chi, come nella storia di Vanity Fair, non piacerebbe ogni tanto, per qualche momento, essere fotoshoppata via dal catalogo, per prendersi un attimo di pace tutto per se?

E’ tempo di schiacciata con l’uva

Tra le cose buone che ci attendono nel mese di settembre, per noi toscani la schiacciata con l’uva è una delle preferite. E’ un dolce povero e semplice che si faceva  in tempo di vendemmia  ed è a base di pasta di pane.

Unico segreto per farla davvero buona è saper affogare bene l’uva nell’impasto e non essere avari nel dosare lo zucchero. L’uva migliore è l’uva fragola se non la trovate va bene qualsiasi uva nera (meglio con i graspi piccoli).

Prendete la pasta di pane (ognuno di voi scelga la miglior ricetta)  e suddividetela in due pezzi. Spianate il primo impasto e aggiungeteci un po’ di olio di oliva poi, uniteci i chicchi d’uva e coprite con lo zucchero . A questo punto prendete il secondo pezzo di pasta di pane spianatelo e stendete sopra il secondo strato, sparpagliatevi ancora l’uva e lo zucchero .

Mettete in formo a 180 gradi per un’ora circa (guardate a vista quando il colore lo rende cotto) e dopo : SI SALVI CHI PUO’ lo sfortunato sarà chi arriva ultimo.

L’oro dei saraceni

Immaginatevi già seduti di fronte al mare, con un aperitivo fresco fra le mani a guardare l’orizzonte, finalmente in vacanza!

Il sole cala e la canicola della giornata viene spazzata via da un venticello leggero e rinfrescante che porta il profumo della macchia mediterranea… Ho reso l’idea? A questo punto ci vorrebbe qualcosa di sfizioso per finire la giornata in gloria, certo se fossimo in Sicilia, seduti comodamente sulla terrazza di un ristorante potremmo facilmente ordinarli e gustarli appena fritti, pregustando già con gli occhi la rottura della crosta dorata e croccante e la fuoriuscita del formaggio filante e del ragù, ma purtroppo ci troviamo sul balcone di casa nostra in città e allora… non ci rimane che farceli da soli!

Gli arancini siciliani (o meglio le arancine, come dicono a Palermo) sono uno dei piaceri più genuini della vita! Come molte pietanze isolane sono retaggio della conquista saracena della Sicilia, quando i nuovi arrivati importarono i gusti e i profumi del vicino oriente. Infatti proprio gli arabi usavano porre al centro della tavola un piatto di riso allo zafferano che ogni commensale poteva poi condire a piacimento con carni diverse e verdure, servendosi direttamente dal piatto con un pugno di riso e riempiendolo di leccornie (da qui la forma rotonda). Pare che solo all’epoca dei normanni, con l’imperatore Federico II si iniziò a impanare l’arancino e a friggerlo. La necessità di portare il cibo con sé durante i viaggi o le battute di caccia imponeva un metodo per conservarne al meglio gli aromi all’interno (mica stupidi gli avi, con la loro idea di take away!).

Se all’inizio il ripieno poteva essere diverso, oggi si considera classico l’arancino con il cuore di ragù di carne, piselli e mozzarella, sebbene, se vi fate un giro nelle friggitorie sicule, le nuove tendenze si riallacciano al passato e troverete arancini ripieni di sole verdure o di pesce.

La ricetta è chiaramente una bomba calorica, ma fa parte di quei tesori italiani che, come diceva la mia nonna (napoletana) “é necessario saper cucinare prima di potersi sposare” (sebbene la mia nonna si riferisse al peperone ripieno!).

Questi gli ingredienti per 12 (se avete le manine sapienti anche di più, se avete le manone decisamente meno) arancini. Accanto ad alcuni ingredienti, fra parentesi troverete il suggerimento di una “maga dell’arancino” nonna Cettina, siciliana DOC, che da 60 anni prepara inarrivabili arancini per la sua famiglia.

500 di riso (il carnaroli andrà benissimo)

1 cipolla piccolina,

un bicchiere di vino bianco secco

gr. 200 di polpa di manzo tritata (sarebbe decisamente meglio acquistare il pezzo intero, scamone ad esempio, e sminuzzarlo al coltello)

gr. 100 di polpa di maiale tritata (nonna Cettina non approverebbe la carne di maiale)

gr. 250 di piselli novelli (perfetti quelli surgelati, meglio ancora se già cotti in un soffritto leggero leggero di cipolla)

gr. 150 di salsa pomodoro (il concentrato è decisamente meglio),

1 tazza  di brodo vegetale (anche di dado)

alcune foglie di basilico,

gr. 100 di burro,

1 bustina di zafferano (i puristi non lo usano, dipende dal gusto personale)

gr. 100 di formaggio grana grattugiato,

4 uova,

gr. 200 di mozzarella (molto meglio il porvolone dolce, che fila e non rilascia acqua)

gr. 400 di pangrattato,

gr. 200 di farina

olio extravergine di oliva,

sale, pepe,

abbondante olio per friggere.

Fare un ragù, facendo appassire la cipolla sminuzzata nell’olio di oliva, aggiungendo le carni e sfumando con il vino bianco. Dopo qualche minuto versare il il concentrato di pomodoro e brodo quanto basta e lasciar cuocere finché la carne é pronta. A fine cottura aggiungere i pisellini novelli. Mettete il ragù a raffreddare.

Preparate il riso facendolo cuocere in abbondante acqua salata (o in 2,5 litri di brodo anche di dado) e lasciate che il riso assorba la maggior parte del liquido di cottura. Appena tolto dal fuoco aggiungete lo zafferano (sciolto in una mezza tazzina di acqua, se vi piace), il burro, due uova e il parmigiano grattugiato. Mescolate per benino e aspettate che si raffreddi.

Una volta che tutti gli ingredienti si sono raffreddati preparate gli arancini prendendo un adeguata quantità di riso nel palmo della vostra mano e aggiungendo ragù e provolone a pezzetti in abbondanza. Richiudete con altro riso. Procedete delicatamente all’impanatura prima nella farina, poi nell’uovo (una dritta per impanare: se montate le chiare a neve e passate gli arancini nella “neve” saranno infinitamente meno scivolosi e più maneggevoli inoltre la doratura del fritto sarà perfetta) e infine nel pangrattato.

A questo punto potete friggerli subito in abbondante olio oppure surgelarli e cuocerli in seguito, l’importante é che quando li mangiate siano caldi caldi

GNAM!


La gioia di vivere

Questa è stata una lunga settimana per noi italianeintransito e dopo aver fatto un po’ di salita abbiamo deciso di postare oggi La gioia di Vivere, di Picasso, un dipinto che l’artista ha realizzato nel 1946 in uno dei suoi momenti più felici, durante il suo soggiorno nel castello Grimaldi che si affaccia sul mare di Antibes.

Una donna al centro danza insieme a due capretti, alla sua destra un centauro suona il flauto e alla sinistra un fauno suona il diaulo, il flauto doppio. Nel quadro si respira la felicità del momento. Sullo sfondo al centro l’azzurro del mare, i personaggi hanno i piedi sulla spiaggia  e a sinistra si vede una barca con la vela gialla.

L’ opera di Picasso ci fa venir voglia anche a noi di mare di gioia e serenità.

Mangia… che ti passa!

Quando penso “a casa” mi accorgo di farlo in differenti modi: innanzitutto il mio pensiero va sempre ai cari che non vedo da tempo, poi mi capita di pensare a quanto è difficile parcheggiare in centro, a quanto è infinitamente più facile scambiare quattro chiacchiere anche con chi non si conosce, a quanto sono fortunata a non dover patire l’afa soffocante di quei giorni d’estate in cui il cielo si trasforma in una cappa lattiginosa, pensieri che, come le onde, vanno e vengono, e si focalizzano su persone, situazioni, sensazioni, ma raramente mi è capitato di pensare “a casa” provando semplicemente nostalgia per i luoghi, forse perché da dove vengo tutto è uniformemente piatto…

Ho sempre ritenuto, dunque, di non provare nulla per i posti in cui ho vissuto gran parte della mia vita, anzi in fondo di non apprezzarli affatto, ma ho sentito una fitta al cuore rileggendo la premessa de La chimera di Sebastiano Vassalli, intitolata Il nulla, in cui l’autore coglie tratti del paesaggio padano che fanno parte della mia storia: “Soprattutto d’inverno: le montagne scompaiono, il cielo e la pianura diventano un tutto indistinto, l’autostrada non c’è più, non c’è più niente. Nelle mattine d’estate, e nelle sere d’autunno, il nulla è invece una pianura vaporante, con qualche albero qua e là e un’autostrada che affiora dalla nebbia…”.

Un po’ di nostalgia di casa mia, sebbene piena di zanzare e risaie, mi è venuta e ho pensato di scacciarla cucinando una specialità, ma visto che il periodo estivo sconsiglia vivamente la preparazione della “paniscia” (risottone con verze, fagioli e salsiccia) mi sono concentrata su un dessert che ha un’origine medievale e che, poiché confezionato con prodotti costosi ed “esotici” veniva donato nelle grandi ricorrenze religiose: l’antico Dolce della cattedrale. Questo dolce é immensamente calorico, deliziosamente gratificante e soprattutto segretissimo, in quanto la ricetta originale, trovata in un manoscritto dell’Archivio Capitolare della città, è stata depositata presso la Camera di Commercio e appartiene alla Fondazione che l’ha scoperta (incredibile vero?).

Però con pazienza e qualche telefonata, la ricetta è stata ricostruita e il dolce può essere sfornato e gustato anche a casa, a questa ricetta “ricostruita” purtroppo sicuramente mancherà il famoso”ingrediente segreto”, ma assaggiato il risultato posso assicurarvi che non se ne sente la mancanza…

500 g di farina

10 uova

300 g di zucchero

300 g di burro

15 g di lievito vanigliato

scorza grattugiata di mezzo limone

300 g di albicocche secche

100 g di prugne secche

100 g di uva sultanina

una mela a cubetti (o anche una pera)

grappa di nebbiolo (sarebbe meglio, ma va bene anche il rum!)

è necessario mettere la frutta secca a bagno per almeno 24 ore nella grappa.

Dividete i tuorli dagli albumi e montate due bianchi a neve con dello zucchero (potrebbe servirvi dopo). Montate tutti i tuorli con lo zucchero finché diventeranno bianchi e spumosi, aggiungete 250 g di farina, il lievito vanigliato, il burro a temperatura ambiente leggermente montato, la scorza del limone e metà della frutta secca. Impastate energicamente (meglio se con un’impastatrice). Dopo che gli ingredienti si saranno amalgamati aggiungete i resto della farina e della frutta. Se la consistenza dell’impasto vi sembrerà troppo dura aggiungete i due bianchi montati a neve con lo zucchero.

Otterrete un impasto piuttosto consistente, cosa che garantirà alla frutta secca, durante la cottura, di non depositarsi sul fondo della teglia.

Mettete il composto in una teglia (26 cm) con i bordi abbastanza alti (ottime quelle che si aprono) imburrata e infarinata e cuocete lentamente per 30/40 minuti in forno con modalità non ventilato a 180 gradi. Il dolce si dovrà dorare.

Se ci riuscite aspettate 24 ore prima di mangiarlo, spolverizzatelo con zucchero al velo e, se ne avete voglia, servitelo con una crema leggera (deviazione dalla tradizione), sennò inzuppatelo semplicemente nel latte (decisamente nella tradizione). Proverete sicuramente quello che generazioni di fedeli hanno provato nel corso del tempo assaggiando questa specialità, che veniva offerta dai Canonici solo nelle festività importanti per condividere concretamente la gioia dei festeggiamenti.

Cercate gossip su Google…

… e troverete in 0.13 secondi 306.000.000 di risultati! No, non ho realmente intenzione di raccontare se la Canalis tornerà con Vieri o se il nuovo amore di Belen è solo una trovata pubblicitaria. Infatti, come la maggior parte delle persone sane di mente, mi sollazzo con tali notizie solo quando aspetto per ore il mio turno dal parrucchiere e per caso mi sono dimenticata il libro che mi sto gustando. E la mia non è assolutamente spocchia, non vanto una pretesa superiorità intellettuale (tanto che non sono completamente a digiuno di questi argomenti!), ma il gossip, il pettegolezzo nostrano, mi dà l’occasione di riflettere sulla «prevalenza del cretino», quello che, in realtà, mi fa veramente imbestialire.

Scrivevano gli indimenticati Fruttero e Lucentini nella prefazione del libro La prevalenza del cretino (Mondadori, Milano 1985), che la bêtise é figlia del progresso, infatti, « è stato grazie al progresso, che il contenibile ‘stolto’ dell’antichità si è tramutato nel prevalente cretino contemporneo, personaggio a mortalità bassissima la cui forza è dunque in primo luogo brutalmente numerica; ma una società che egli si compiace di chiamare ‘molto complessa’ gli ha aperto infiniti interstizi, crepe, fessure orizzontali e verticali, a destra come a sinistra, gli ha procurato innumeri poltrone, sedie, sgabelli, telefoni, gli ha messo a disposizione clamorose tribune, inaudite moltitudini di seguaci e molto (molto ! ndr) denaro. Gli ha insomma moltiplicato prodigiosamente le occasioni per agire, intervenire, parlare, esprimersi, manifestarsi, in una parola (a lui cara) per ‘realizzarsi’. Sconfiggerlo é ovviamente impossibile. Odiarlo é inutile. Dileggio, sarcasmo, ironia non scalfiscono le sue cotte d’inconsapevolezza, le sue impavide autoassoluzioni». Mi scuso per la lunga citazione, ma non sarei riuscita ad esprimermi meglio…

Quanti ne abbiamo visti di questi personaggi apparire e sparire, essere intervistati e osannati, sfilare in televisione e sui giornali, insinuarsi nelle nostre vite sempre con un consiglio, una parola e un sorrisetto pseudo intelligente sulle labbra : politici, gente di spettacolo, sedicenti artisti, filosofi, psicologi tutti con un buona novella da donare, tutti tragicomicamente compresi nei propri ruoli.

Odiarli è inutile ? Sarcasmo e ironia non li scalfiscono ? La soluzione dunque sta solo a noi.

Signori, il gossip ci sta, è divertente a volte rilassante. La bêtise é tollerata, ci si può scivolare inconsapevolmente, ma quando tutto ciò diventa ‘sistema’ e distoglie costantemente l’attenzione dalla realtà, allora vuol dire che siamo arrivati alla drammatica necessità di rivedere le priorità, innanzitutto le nostre.

Benvenuto allora  alla farfallina di Belen, al lato B di Pippa Middleton o alle labbra rifatte della Minetti (buon per loro che con tali scemenze e poca fatica riescono a guadagnarci, almeno in visibilità), ma che tutto ciò sia e rimanga un contorno (anche piccante va bene), un amusement durante la pausa caffé, che resti relegato in un mondo ‘a parte’ e che non prevalga sulla realtà.

Nella nostra recente storia passata troppe volte ci siamo fatti distogliere dal contorno e non abbiamo prestato attenzione al piatto principale, che spesso abbiamo ingoiato senza neppure renderci conto di cosa mangiavamo, insomma evitiamo di cascare nella trappola e conserviamo il nostro senso critico. Non abbiamo paura di spegnere la Televisione, o chiudere un giornale, di far sentire la nostra voce di dissenso quando è troppo. Senza pedanteria, con leggerezza e umanità impariamo a distinguere.

Son tutte belle le mamme del mondo

Sono tutte belle le mamme del mondo…diceva la canzonetta.

La mia, penso sia stata la più bella:

Occhi furbi come una lince, ma chiari come le cose buone. Nel suo corpo non c’era posto per le secchezze o per le aridità, il suo cuore era legato alla vita e riusciva a coglierne ogni giorno la bellezza, anche nelle cose più semplici.

Ho scelto per lei una linea che la rappresentasse: ovvero la linea curva.

È con quella che ha saputo accettare tutto quello che la vita gli ha portato, è quella che ha portato stampata sul suo volto, il suo dono per noi: la linea curva del sorriso.

Auguri e forza a tutte le mamme.

Il Babà… un gran signore!

Nella nostra mente rimangono impressi vividamente non solo persone, luoghi, fatti o personaggi, restano indelebili anche gusti, colori, profumi o situazioni (quali lo sciabordio del mare o il frinire delle cicale o ancora il rumore del vento fra gli alberi). I ricordi che vengono scatenati da queste sensazioni sono tanto più profondi quanto più esse sono intense, e hanno la capacità di riportarci indietro nel tempo, spesso direttamente alla nostra infanzia e al suo mondo magico.

Così, non posso stappare una gassosa, che il rumore del gas in uscita mi riporta direttamente al chiosco sul lungomare, dove il mio papà nelle sere di luglio ci comprava il succo di limone emulsionato con acqua ghiacciata, zucchero e bicarbonato; oppure non posso sentire l’odore del giornale appena stampato, perché immediatamente mi ritrovo sulla spiaggia, in fila per comprare la «zeppola» appena fritta, abbondantemente passata nello zucchero e cannella e appoggiata proprio sul giornale del mattino per farle «sudare» tutto l’olio in più…

… scusate, mi rendo conto che tutto ciò è molto «proustiano», ma mi serve per introdurre un argomento al quale tengo molto.

Se, infatti, sento nell’aria il classico profumo di dolce appena sfornato, il ricordo che si staglia chiaro e gigante nella mia mente è il babà! Lucido, di color ambrato, a forma di grosso porcino, con o senza crema, con o senza ciliegina, adagiato mollemente ad aspettarmi nella sua carta arricciata e piena di delizioso sciroppo di zucchero e rhum.

Per anni mi è stato detto (la mia prodigiosa prozia, seguita da mia madre e dalle sue sorelle) col sorrisetto agli angoli delle labbra: «é inutile cercare di rifare il babà a casa… tanto non verrà mai», ed io, ligia al divieto famigliare, ho sempre badato a comprarlo in pasticceria.

Ora però che sono fuori dall’Italia il babà dove lo trovo? Allora mi sono messa di buzzo e ho iniziato a provare tutte le ricette sulle quali sono riuscita a mettere le mani (libri, internet, una cugina lontana grande cuoca) fino a trovarne una che, almeno in parte, mi riportasse al delizioso sapore conosciuto.

Che gli avi mi perdonino per ciò che sto per dire !

In effetti, la ricetta che mi ha dato finora i migliori risultati non arriva da qualche voluminoso compendio di cucina napoletana o dalla bocca di un vecchio pasticcere che prende un po’ di fresco nel vico, ma… (ahimè) dal Mastering the art of French Cooking di Julia Child (sì sì proprio quella del film Julia and Julia interpretato da Meryl Streep).

Del resto, per placare le mie ansie, posso dire che il babà pare non essere stata neppure un’invenzione napoletana, infatti, risalgono alla metà dell’Ottocento circa le prime fonti partenopee, mentre notizie di un dolce simile ci arrivano addirittura dalla lontana Polonia. Il babka ponczowa, era, infatti, una specie di ciambellone che veniva riempito di crema, poco dolce e un po’ soffocante, che fu rivisitato dal sovrano Stanislao Leszczyński, che si dilettava di cucina, il quale, per renderlo un po’ più appetibile, lo «bagnò» per la prima volta con una miscela di Tokaj e zucchero!

Dunque vi passo la ricetta di Julia, aggiungendo qualche avvertenza preliminare:

Il babà è un gran signore e come un gran signore vuole essere trattato. Lavoratelo in un luogo caldo, ponetelo a crescere in posto lontano dalle correnti d’aria. Una volta cotto aspettate che l’umidità della pasta venga completamente eliminata prima di imbibirlo dello sciroppo. Può essere congelato facilmente e con successo, ma prima di essere inzuppato di sciroppo lo dovete far scongelare nel forno a 150 gradi per 5 minuti.

Che altro ? Ah, sì seguite le dosi (per 12 babà) e i tempi di crescita e cottura con esattezza. Darò la ricetta con le misure americane (tazze, cucchiai da tavola ecc.) perché non mi azzardo a farne la conversione (su internet si trovano programmi appositi e se non avete i misurini americani potete dilettarvi a convertire le dosi).

Pronti?

4 Tb di burro

1 Tb di lievito di birra fresco (che profumo!)

3 Tb di acqua calda

2 Tb di zucchero

un pizzico di sale

2 grandi uova

1 cup e 1/3 di farina

Mescolate l’acqua calda con il lievito finché si sia sciolto bene. Aggiungete le uova, lo zucchero e il pizzico di sale e lavorate finché tutto sia ben amalgamato con un cucchiaio di legno. Aggiungete la farina e continuate a mescolare. Ora, dopo che l’impasto è ben amalgamato, con la mano a coppetta continuate a impastare in modo circolare, poi staccate l’impasto dalle pareti, mescolatelo e sbattetelo violentemente contro di esse, ripetendo questa operazione, che sembra scema ma é fondamentale,  per almeno 5 minuti. All’inizio l’impasto è appiccicoso e si incollerà alle dita, ma mano a mano che procedete con questa operazione si staccherà sempre più facilmente da dita e recipiente. Una volta arrivati ad una consistenza che vi permetta di tenere l’impasto in mano (senza cioè che scivoli via…) fatene una palla, con un coltello fate un’incisione leggera a croce e deponetelo in un contenitore, ricoperto con un panno pulito in un luogo caldo (fra i 25 e i 45 gradi) per 1 ½ – 2 ore.

Una volta cresciuto l’impasto (sarà enorme !) gentilmente con una mano staccatelo dalle pareti e dividetelo in 12 stampini da babà (se non li trovate vanno bene anche quelli per i muffin, il risultato finale sarà però un po’ diverso) già spalmati di burro e infarinati. Ora ai babà occorrono altre due ore di lievitazione, ognuno nel proprio stampino, nello stesso luogo caldo e senza sbalzi di temperatura e correnti d’aria, fino a che la pasta non arrivi quasi al bordo, prima di essere pronti alla cottura che dovrà essere breve ma intensa (250 gradi per 15 minuti).

Ce l’abbiamo quasi fatta !

Mentre i babà cuociono preparate lo sciroppo al rhum con

2 cup di acqua calda

1 cup di zucchero

½ cup di Rhum (quello scuro, se vi piace un po’ piu alcolico potete aggiungere altro rhum)

In un pentolino fate scaldare lo sciroppo finché tutto lo zucchero sarà sciolto. Togliete dal fuoco e fate raffreddare.

Quando i babà saranno cotti aspettate che si raffreddino e poi procedete al bagno nello sciroppo.

Se tutto è andato bene il risultato sarà dolcetti morbidi e spugnosi, ma sodi (tanto che se li strizzate ritorneranno alla loro forma) che affogati nel liquido si gonfieranno deliziosamente.

Alla fine potrete spennellarli con una miscela di marmellata di albicocche e acqua, che li renderà lucidi, ma io preferisco sbranarli così.

A proposito del digiuno…

Può apparire bizzarra la scelta di inserire questo post nella categoria “che gusto c’è” dal momento che vogliamo trattare di un argomento che è all’opposto del cibo: il digiuno. Abbiamo deciso di inserirlo qui perché il digiuno può essere inteso non solo come un dovuto riposo fisiologico dell’organismo, che attraverso di esso si depura da tossine e veleni, restituendo un rinnovato gusto per il cibo, ma anche come una possibilità di controllo su se stessi per evitare di divenire schiavi del superfluo.

Sul digiuno desideriamo fare una riflessione che non si concentri sui motivi dietetici o pseudo tali che ci spingono a patire la fame abbracciando improbabili diete, ma neppure sul suo tragico contrario, la mancanza di cibo dovuta a povertà o carestia, e neppure sul digiuno come arma di contestazione o protesta.

Vorremmo focalizzare la nostra attenzione sul digiuno che attraversa trasversalmente culture e religioni ed è presente fin dalla notte dei tempi nella storia dell’umanità, senza dare giudizi sulla bontà o meno di questa pratica, ma semplicemente tratteggiandone i caratteri.

Partiamo dunuqe da una definizione che ne chiarisce il significato, con digiuno voglio intendere quella “astinenza temporanea totale o parziale dal cibo, per lo più per scopi religiosi e con diverse motivazioni” ( M. Schnedider, voce Digiuno, in Nuovo dizionario delle Religioni, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo, 1993). Il digiuno infatti ha acquistato a seconda della latitudine delle popolazioni, delle loro credenze e della loro cultura, funzioni e significati differenti.

La prima e più antica è la funzione APOTROPAICA del digiuno, cioè attraverso la sua pratica si può tenere distante o addirittura annullare l’influenza maligna. Con il digiuno infatti ci si protegge da emanazioni dannose di cibi e bevande e con esso si riesce a scacciare la possibilità di rimanere vittime di eventi catastrofici.

Altra funzione del digiuno è quella CATARTICA: esso rappresenta la purificazione del corpo prima o dopo azioni particolarmente importanti. Ci sono poi la funzione ETICA – digiuno come sacrificio, espiazione o automortificazione – ed ESTATICA – digiuno come rafforzamento di quelle energie che mettono l’individuo a diretto contatto con la divinità. Infine il digiuno può essere la manifestazione esteriore del LUTTO, come accadeva tradizionalmente fra gli antichi egizi.

Ancora, esso può essere praticato in gruppo (il Ramadan) o da soli (per purificarsi dai peccati), in tempi e giorni stabiliti (la Quaresima) o in modo estemporaneo come atto di umiltà e penitenza. Infine, in molte culture e religioni, di fronte all’estremizzazione delle forme di digiuno si è giunti a consigliarne una “interiorizzazione” in forma di “preghiera attraverso il corpo”.

Che sia rituale, dietetico, disintossicante il digiuno da sempre è presente nella storia dell’uomo.