Palermo e i suoi misteri

In queste corte giornate invernali, in cui il vento gelido, detto “bise noir”, spazza i campi innevati di queste latitudini, tanto che si ha l’impressione di essere ancora più a nord di quanto in realtà non ci si trovi, il pensiero della dolce Italia si fa spazio nel cuore fra un mulinello di neve e l’altro. Non che il tempo atmosferico abbia risparmiato il Bel paese, ma nella memoria e nei desideri di noi che siamo lontani, l’Italia appartiene sempre alla primavera. Un po’ di nostalgia per raccontare una delle tante anomalie che rendono il nostro paese indimenticabile.

Se stessimo scrivendo un libro giallo il titolo sarebbe già pronto: Il mistero della Stanza Araba, e l’ambientazione perfetta: il cuore del centro storico di Palermo. Qui infatti grazie ai restauri avviati nel 2003, all’interno di un appartamento di proprietà di due giornalisti siciliani, è stata fatta una scoperta eccezionale. Scrostando il vecchio intonaco di uno degli ambienti da recuperare è mano a mano apparsa una “camera delle meraviglie”, perfettamente quadrata di 3,5 metri x 3,5 metri, completamente affrescata da motivi e scritte arabe in argento su fondo blu. La volta presenta disegni di lanterne simili a quelli che contenevano il Genio della lampada di Aladino, di fattura decisamente medio orientale e persino le porte, passate alla TAC da esperti dell’UNESCO, recano disegni complessi sotto tre mani di vernice differenti.

Sulle prime si è pensato ad un ambiente adibito a moschea, a stanza di preghiera, cosa che avrebbe giustificato non solo l’esposizione verso la Mecca, ma anche la presenza di un simile gioiello in un palazzo non nobiliare della città. Poiché l’ambiente non risalirebbe più indietro del XIX secolo, altra ipotesi è stata quella di una “camera alla turca”, in cui dipinti e scritte nulla avrebbero avuto a che fare con la religione, ma sarebbero stati puri ornamenti, una camera segreta, insomma, realizzata per stupire e deliziare gli ospiti in un contesto decisamente esotico e utilizzata come “fumoir”.

Ma l’enigma è stato risolto solo recentemente da un gruppo di studiosi dell’Università di Bonn, composto da un esperto in lingua araba, un’archeologa e iranista, e una specialista in lingue orientali, che dopo oltre un anno di ricerche sono giunti alla conclusione che la stanza, commissionata con ogni probabilità da Stefano Sammartino, duca di Montalbo, Ministro delle Finanze e Capo della Polizia dei Borbone – legato ad ambienti massonici – fosse dedicata a riti esoterici.

Ora la camera delle meraviglie è visitabile dal pubblico su appuntamento, grazie alla gentilezza dei proprietari e si aggiunge agli angoli da riscoprire nella splendida e assolata Palermo.

Gattopardi italiani

Il Gattopardo
tratto dal film  Il Gattopardo di Luchino Visconti

Un noto giornalista ci parla in questi giorni dei “gattopardi italiani”, trasformisti politici che sanno riciclarsi in ogni dove e che sembrano essere l’unico vero tratto comune a troppe figure pubbliche del nostro paese. Il giornlista ha scritto un libro su questo e ha anche un programma televisivo. Io, seguendo una sua intervista, mi sono sovvenuta del romanzo da cui lui ha preso la definizione di gattopardo: l’omonimo capolavoro di Tomasi di Lampedusa. L’avevo letto da giovane, spinta dalla scuola, ma adesso ho deciso di ripercorrerlo per curiosità.imagesCAD2HUGK

Sapevo che il gattopardo del romanzo è figura ben più complessa della definizione entrata in uso nel nostro linguaggio, ma non ricordavo quanto articolato e bello fosse il libro. Oggi, rileggendolo, mi sono trovata di fronte un’opera di arte ambientale, dove i protagonsiti sono perfettamente inseriti nell’ambiente e con esso interagiscono per arrivare a farne talmente parte. Non si tratta solo della capacità descrittiva di questo autore geniale, che visse in modo ritirato e forse anche fuori dal suo tempo. No, si tratta del suo descrivere mondi che si intrecciano e che si scambiano figure e storie: quello della nobiltà siciliana e quello della borghesia emergente (da affari e maneggi non sempre limpidi); la chiesa e il suo rapporto con tutti e due (incarnata dal gesuita padre Pirrone); il mondo della politica nuova, piena di promesse, ma già vecchia; il mondo del regime borbonico ormai decrepito e quello – appena sfiorato – dei contadini più poveri; gli stranieri che si affacciano curiosi su una Sicilia dalla bellezza tragica ed estrema.

Quando Tancredi e Angelica amoreggiano nelle stanze dello sconfinata residenza di campagna, sono parte di un ambiente che vive con loro e financo dentro di loro. Quando il Principe di Salina accusa la stanchezza esistenziale che lo attanaglia dopo il celbere (anche per il film di Visconti) ballo, egli è perfettamente parte delle consunte decorazioni dei soffitti e delle porte del palazzo che in quel momento lo ospita. E il principe, quando parla col delegato piemontese del desiderio d’oblio dei sicilani, non lo fa forse alla finestra, con la conca di palermo sotto gli occhi?

Certo vi è anche una lettura amara della società di allora, così vicina alla nostra quando si parla di arrivisti e approfittatori (Sedara non è una figura tristemente universale?). Il romanzo in questo sembra essere attuale. Ma alla fine più di ogni altra si ama la figura del suo protagonista, Fabrizio, principe di Salina. E  non perché rappresenti qualcosa che ci riporta al nostro tempo, ma perché è l’unico, fra tutti, ad avere coscienzza di sé e delle vere conseguenze del cambiamento in atto. E lo accetta con serenità, gestendo ciò che può gestire (come il fidanzamento di Tancredi) per salvare il salvabile. Non si illude Fabrizio: ha una mente scientifica, ragiona in modo razionale. Attende la fine del suo tempo perché sa che altro non può fare, per sua condizione e per la natura delle cose. Il suo aver uso di mondo è una magnifica commedia, alla quale egli si dedica perché sa che le forme rendono la fatica della vita appena più sopportabile.

L’arte, anche quella del romanzo, ci porta sempre su piani più alti del trito contingente. Peccato che il titolo di questo capolavoro sia usato per descrivere i viziacci dei nostri politici.

 

 

 

Alberi

Palermo, Giardino Garibaldi
Palermo, Giardino Garibaldi

Avete mai provato una forte emozione di fronte a un grande albero?  Gli alberi mi colpiscono come i monumenti e non posso dimenticare l’emozione avuta davanti ai  cinque grandi Ficus che si trovano nel Giardino Garibaldi, a Palermo.  Hanno qualcosa di umano? Avevo un amico il cui hobby era fotografare gli  alberi dal volto umano. I legami tra l’uomo e gli alberi vengono dal passato, Ovidio, nelle Metamorfosi, ci racconta di Dafne che per scappare dalla passione di Apollo si trasformò in un albero di alloro. Gli alberi sono anche al centro di rituali magici come in India dove le donne depositano pietre ai piedi dei banyan,  in segno di felicità e fecondità. Mentre i cinesi o i giapponesi con i bonsai sono riusciti, attraverso un lavoro paziente, a creare degli alberi in miniatura rispettandone l’equilibrio vegetale.

Antonio del Pollaiolo, Apollo e Dafne,
Antonio del Pollaiolo, Apollo e Dafne, 1470-1480, National Gallery, Londra

Se gli alberi sono belli come monumenti cosa aspettano gli artisti a impegnarsi per salvaguardare loro e il loro habitat? Sembrerebbe che qualcosa si stia movendo e così a Brighton, nel sud dell’Inghilterra è nata da poco una galleria d’arte – la Galeria ONCA – dedicata all’arte e alla natura.

ONCA Galery, Brighton
Galleria ONCA , Brighton

Qui infatti la storica dell’arte Laura Coleman ha aperto uno spazio dove gli artisti sono invitati a raccontare delle storie di natura e di salvaguardia dell’ambiente. In seguito ad una esperienza in Bolivia nella foresta, al suo rientro si è decisa a trovare un modo per mettere in contatto le persone con la natura. Questo è solo un esempio perché sembra che anche altri artisti si stanno muovendo in questa direzione e in alcuni casi come l’artista David Buckland nel 2002 ha creato un gruppo Cape Farewall composto di artisti e scienziati e volontari per creare delle opere d’arte inedite che raccontino dei cambiamenti climatici lo possono testimoniare e raccontare attraverso l’arte.

Davide Buckland
Davide Buckland

Arte e scienza insieme lavorano assieme allo stesso scopo.

Qualcosa sta cambiando l’arte sente il bisogno di aiutare la scienza e quest’ultima non le chiude le porte e così qualcosa potrebbe davvero cambiare. I maggiori progressi elle storia sono avvenuti nell’incontro di questi due campi.

La natività di Caravaggio

Caravaggio, Natività con i santi Francesco e Lorenzo,1609

Può capitare a volte di entrare in Libreria  e scegliere un libro di cui non hai mai sentito parlare, perché ti ha incuriosito il titolo o perché sei interessato al  soggetto. Non sempre hai fortuna, ma a me è andata bene l’ultima volta che lo ho fatto. Ero in Italia.  I libri li prendo in Italia perché, ahimè, tra Ginevra e Losanna non esiste una libreria italiana (solo piccolissime sezioni in librerie che dedicano invece largo spazio al tedesco e all’inglese). Il libro, edito dalla Sellerio, ha come titolo Il Caravaggio rubato. E’ scritto da Luca Scarlini.

L’opera è sotto forma di inchiesta e tratta del furto della Natività di Caravaggio, avvenuto nel 1969, nell’Oratorio di San Lorenzo a Palermo.  Scarlini nel libro racconta i fatti relativi al furto e dimostra come essi si leghino all’ambiente siciliano e alla mafia.  Parla anche della divisione profonda, nelle scelte di tutela e prevenzione, tra la chiesa e lo stato. Leggendo il libro si ripercorre tutta la vicenda, sottolineando come tra il 1967 e 1969 i furti di opere d’arte in Sicilia siano stati in costante  ascesa.

Nel libro si analizza la storia del furto. Nelle prime pagine si trova una bella descrizione del quadro. L’autore prosegue poi con un capitolo intitolato “Il lamento della tela”, dove prova a calarsi nei sentimenti della tela allorquando  i ladri la ritagliano dalla cornice, la arrotolano e la portano via. Non si è mai saputo chi lo abbia rubato, perché lo abbia fatto e dove si trovi adesso il grande dipinto. Nel libro si formulano diverse ipotesi sul furto, passando dalla più accreditata idea di un furto compiuto dalla mafia, a quella di  un amante dell’arte, o all’atto commesso per ottenere un riscatto.

L’autore scrive: “ la Natività di Caravaggio rapito racconta molte storie: narra del degrado di una città in uno dei suoi periodi più terribili(…) Parla però anche di un problema nazionale che negli stessi tempi divampa con una violenza mai vista prima”.

Tanto è tragica la storia della Natività quanto lo è quella della Sicilia e quanto lo è stata la vita di Caravaggio, coi suoi ultimi anni trascorsi in fuga tra Malta, Sicilia e Napoli.

L’oro dei saraceni

Immaginatevi già seduti di fronte al mare, con un aperitivo fresco fra le mani a guardare l’orizzonte, finalmente in vacanza!

Il sole cala e la canicola della giornata viene spazzata via da un venticello leggero e rinfrescante che porta il profumo della macchia mediterranea… Ho reso l’idea? A questo punto ci vorrebbe qualcosa di sfizioso per finire la giornata in gloria, certo se fossimo in Sicilia, seduti comodamente sulla terrazza di un ristorante potremmo facilmente ordinarli e gustarli appena fritti, pregustando già con gli occhi la rottura della crosta dorata e croccante e la fuoriuscita del formaggio filante e del ragù, ma purtroppo ci troviamo sul balcone di casa nostra in città e allora… non ci rimane che farceli da soli!

Gli arancini siciliani (o meglio le arancine, come dicono a Palermo) sono uno dei piaceri più genuini della vita! Come molte pietanze isolane sono retaggio della conquista saracena della Sicilia, quando i nuovi arrivati importarono i gusti e i profumi del vicino oriente. Infatti proprio gli arabi usavano porre al centro della tavola un piatto di riso allo zafferano che ogni commensale poteva poi condire a piacimento con carni diverse e verdure, servendosi direttamente dal piatto con un pugno di riso e riempiendolo di leccornie (da qui la forma rotonda). Pare che solo all’epoca dei normanni, con l’imperatore Federico II si iniziò a impanare l’arancino e a friggerlo. La necessità di portare il cibo con sé durante i viaggi o le battute di caccia imponeva un metodo per conservarne al meglio gli aromi all’interno (mica stupidi gli avi, con la loro idea di take away!).

Se all’inizio il ripieno poteva essere diverso, oggi si considera classico l’arancino con il cuore di ragù di carne, piselli e mozzarella, sebbene, se vi fate un giro nelle friggitorie sicule, le nuove tendenze si riallacciano al passato e troverete arancini ripieni di sole verdure o di pesce.

La ricetta è chiaramente una bomba calorica, ma fa parte di quei tesori italiani che, come diceva la mia nonna (napoletana) “é necessario saper cucinare prima di potersi sposare” (sebbene la mia nonna si riferisse al peperone ripieno!).

Questi gli ingredienti per 12 (se avete le manine sapienti anche di più, se avete le manone decisamente meno) arancini. Accanto ad alcuni ingredienti, fra parentesi troverete il suggerimento di una “maga dell’arancino” nonna Cettina, siciliana DOC, che da 60 anni prepara inarrivabili arancini per la sua famiglia.

500 di riso (il carnaroli andrà benissimo)

1 cipolla piccolina,

un bicchiere di vino bianco secco

gr. 200 di polpa di manzo tritata (sarebbe decisamente meglio acquistare il pezzo intero, scamone ad esempio, e sminuzzarlo al coltello)

gr. 100 di polpa di maiale tritata (nonna Cettina non approverebbe la carne di maiale)

gr. 250 di piselli novelli (perfetti quelli surgelati, meglio ancora se già cotti in un soffritto leggero leggero di cipolla)

gr. 150 di salsa pomodoro (il concentrato è decisamente meglio),

1 tazza  di brodo vegetale (anche di dado)

alcune foglie di basilico,

gr. 100 di burro,

1 bustina di zafferano (i puristi non lo usano, dipende dal gusto personale)

gr. 100 di formaggio grana grattugiato,

4 uova,

gr. 200 di mozzarella (molto meglio il porvolone dolce, che fila e non rilascia acqua)

gr. 400 di pangrattato,

gr. 200 di farina

olio extravergine di oliva,

sale, pepe,

abbondante olio per friggere.

Fare un ragù, facendo appassire la cipolla sminuzzata nell’olio di oliva, aggiungendo le carni e sfumando con il vino bianco. Dopo qualche minuto versare il il concentrato di pomodoro e brodo quanto basta e lasciar cuocere finché la carne é pronta. A fine cottura aggiungere i pisellini novelli. Mettete il ragù a raffreddare.

Preparate il riso facendolo cuocere in abbondante acqua salata (o in 2,5 litri di brodo anche di dado) e lasciate che il riso assorba la maggior parte del liquido di cottura. Appena tolto dal fuoco aggiungete lo zafferano (sciolto in una mezza tazzina di acqua, se vi piace), il burro, due uova e il parmigiano grattugiato. Mescolate per benino e aspettate che si raffreddi.

Una volta che tutti gli ingredienti si sono raffreddati preparate gli arancini prendendo un adeguata quantità di riso nel palmo della vostra mano e aggiungendo ragù e provolone a pezzetti in abbondanza. Richiudete con altro riso. Procedete delicatamente all’impanatura prima nella farina, poi nell’uovo (una dritta per impanare: se montate le chiare a neve e passate gli arancini nella “neve” saranno infinitamente meno scivolosi e più maneggevoli inoltre la doratura del fritto sarà perfetta) e infine nel pangrattato.

A questo punto potete friggerli subito in abbondante olio oppure surgelarli e cuocerli in seguito, l’importante é che quando li mangiate siano caldi caldi

GNAM!