Hans Memling Rinascimento fiammingo

Hans Memling, Ritratto di donna 1470
Hans Memling, Ritratto di donna, 1470

Nel XV secolo due sono i centri principali del rinnovamento artistico europeo: Firenze e le Fiandre. Questo perché sono anche due grandi poli economici, proiettati – si direbbe oggi – su scala globale con i propri mercanti e con i propri banchieri. E’ infatti assodato che spesso l’impulso artistico vive in simbiosi con robuste realtà economiche.

Ma vi sono differenze. Gli artisti fiorentini si orientano verso l’antico e intraprendono, per mezzo della razionalità e delle propoporzioni matematiche, un percorso che li condurrà verso l’applicazione della prospettiva in ogni forma artistica. Nelle Fiandre, invece, l’arte si evolve verso uno sguardo preciso sulla realtà della vita quotidiana, cercando di rappresentare nel modo più fedele possibile ciò che si presenta davanti agli occhi del pittore: ritratti di ricchi borghesi e mercanti, abiti lussuosi, interni di case, profili delle città e ogni segno di opulenza. Un nuovo spirito che ben fu descritto da Van Eyck, inventore della tecnica della pittura ad olio.

I toscani, ma direi tutti gli artisti italiani dell’epoca, ebbero con le Fiandre un rapporto molto intenso. Molti committenti si fecero ritrarre dai pittori fiamminghi, come nel celebre caso dei coniugi Arnolfini, opera di Van Eyck oggi a Londra. Chi volesse approfondire il rapporto tra Italia e Fiandre nel XV secolo, non può perdersi la mostra che si è aperta da poco a Roma, alle Scuderie del Quirinale, dedicata all’opera del pittore Hans Memling e al rinascimento fiammingo.

Hans Memling, Ritratto di uomo , 1473
Hans Memling, Ritratto di uomo con moneta romana , 1475

Memling fu un ritrattista famoso. Di origine tedesca, aprì nel 1465 la bottega a Bruges divenendone in poco tempo il centro di committenza più conosciuto. Ricercato infatti da molti banchieri e da ricchi mercanti italiani, lavorò e contribuì ad intrecciare un dialogo articolato tra la pittura fiamminga e quella italiana. In mostra si potranno vedere i ritratti più famosi assieme alle opere religiose devozionali. Attraverso quelle immagini si può veramente comprendere meglio quel corridoio culturale che unì per un secolo l’area fiamminga, con il mondo dell’arte italiana.

Un percorso ancor più interessante per chi oggi si affanna a capire le origini di un percorso di unificazione europeo, che tanto fatica a trovare uno sbocco armonioso.

La mostra è da non perdere e resterà aperta fino al 18 gennaio. Chi ne volesse sapere di più vada sul sito: www.scuderiedelquirinale.it

Chiacchiere del lunedì

Andrea del Castagno, Umini illustri,
Andrea del Castagno, dal ciclo Uomini illustri, Pippo Spano

In pieno Rinascimento, Andrea del Castagno, pittore fiorentino, affresca la villa di Giuseppe Carducci, Gonfaloniere di giustizia, con un ciclo sugli uomini illustri. Non personaggi biblici o comunque legati alla religione, ma figure che si sono distinte per le loro qualità di uomini e di cittadini. Guardavo questi affreschi, riprodotti in un libro, e pensavo: ma oggi, nella nostra bella Italia, chi illustrerebbe Andrea del Castagno, se fosse ancora fra noi? Mi sono messa nei suoi panni e ho provato a figurarmi i soggetti per un ciclo degli italiani illustri del nostro tempo. Ho scorso figure e nomi e sono giunta alla conclusione che non sarebbero coloro che stanno maggiormente agli onori delle cronache, ma piuttosto tante persone impegnate per un mondo migliore, che si illustrano per la loro devozione incessante a una o più cause, nel corso di una vita intera spesa per gli altri.

Don Luigi Ciotti
Don Luigi Ciotti

Fra tutti, a mio modo di vedere, ne prevarrebbe uno: don Luigi Ciotti, sacerdote e animatore delle esperienze di impegno civile e cristiano più belle e vere che io abbia incontrato in Italia: la lotta alla droga,l’esperienza della strada come moneta di incontro e crescita comune, la lotta a tutte le mafie. Lo vedrei affrescato non in pose maestose o roboanti, da condottiero rinascimentale, ma in uno dei suoi tanti atteggiamenti di dialogo, di ricerca, di riflessione, di lavoro. Ci vorrebbe un artista capace di ritrarre un uomo che ha saputo aggregare persone e istituzioni in una lotta contro forze enormi e che oggi vive sotto scorta, perché minacciato dal male. E per saper ritrarre quella bella luce che traspare dagli occhi di chi sa di camminare, in buon compagnia, sulla strada della giustizia.

Vedrò Singapore?

supertreesDi utopie urbanistiche la storia dell’architettura è colma. Di progetti architettonici che hanno cercato, a volte semplicisticamente, di realizzare nuovi modelli di nuclei urbani, frutto dell’immaginazione di pensatori riformisti e filosofi, ne sono rimasti moltissimi.

Le “città ideali” del Rinascimento, ad esempio, che offrivano il “modello perfetto” di agglomerato, capace di risolvere insieme i problemi urbanistici e sociali, sono state teorizzate dai grandi di quei secoli quali Tommaso Moro, Campanella o Francesco Bacone che con dovizia di particolari si sono prodotti nell’esercizio di ripensare gli spazi urbani.

Nel 1898 Ebezener Howard si pone nella scia dei grandi filosofi del passato e teorizza la “città giardino”. Come afferma Bruno Zevi: «Come scrittore e sognatore di nuove comunità, Howard è l’ultimo della lunga schiera di utopisti del XIX secolo; come statista e realizzatore, è, più che un profeta, il primo campione dell’urbanistica moderna» (B. Zevi, Storia dell’architettura moderna, p. 70). La città giardino è la soluzione ideale per coniugare i benefici della campagna con la tecnologia della città. L’obiettivo è di decongestionare le grandi città attraverso il decentramento della popolazione in città satelliti immerse nel verde della campagna. Questo a grandissime linee il suo pensiero. Dunque le città giardino si dovevano fondare su un equilibrio armonico tra residenza, industria e agricoltura e furono anche fatti tentativi di realizzazione di tali dettami. Ma i tempi non erano maturi.

Recentemente però una città ha cercato di sviluppare un progetto che può essere assimilato alle città giardino di Howard: Singapore.Le serre Qui infatti con uno sforzo economico non indifferente è stato realizzato un progetto ciclopico per rendere la città la prima “tropical Garden City” del mondo, un luogo dove vivere e lavorare meglio. Su 101 ettari di terreno, in gran parte strappati al mare, sono stati realizzati i Gardens by the Bay, 7 differenti giardini botanici ognuno dedicato a un differente ecosistema: Flower Dome, Cloud Forest, Supertree Grove, Heritage Gardens, Dragonfly & Kingfisher Lakes, Bay East Garden, World of Plants. Ma le attrazioni che rendono questo parco unico sono le due immense, le strutture in vetro più grandi del mondo che hanno vetri ad alto rendimento e un sistema di climatizzazione alimentato da tecnologia ecosostenibile: il Flower Dome, che conserva la flora del clima mediterraneo, e la Cloud Forest, con la fauna delle regioni tropicali.

La zona a più alto impatto emozionale è però quella dei supertrees, super alberi che vanno dai 25 ai 50 metri, con un nucleo di calcestruzzo e un cappello che oltre a raccogliere l’acqua piovana e incanalarla nel sistema di irrigazione, ospita i pannelli solari che servono a creare l’energia elettrica per tutto il parco. Essi sono completamente rivestiti di vegetazione con felci, orchidee e piante rampicanti e di notte si accendono creando un vero e proprio spettacolo di luci.

Questo parco progettato da un team di ingegneri, architetti e agronomi che hanno lavorato fianco a fianco per la sua realizzazione, si serve di una tecnologia a basso consumo energetico, basandosi sulle energie rinnovabili divenendo così un esempio principe della sostenibilità energetica in un’area che fino a cinquant’anni fa ospitava solo impenetrabile foresta equatoriale, che oggi è una megalopoli ma che allo stesso tempo vuole recuperare la sua vocazione alla natura.

La città ideale

 

Pensare alla città ideale, utopia del Rinascimento è un tema oggi attuale e suggestivo. L’idea della mostra, non è partita a caso ad Urbino dove già risiede la famosa tavola quattrocentesca di una veduta urbana senza figure umana dove, si vede una grande piazza aperta fra un’insieme di architetture perfettamente concepite come in una visione fotografica di un grand’angolo.  Di opere simili se ne conoscono altre tre, una di Baltimora che è possibile vedere in mostra e un’altra invece che è a Berlino .

Il mistero della tavola di Urbino  ha sempre affascinato,  non si conosce l’autore né si sa perché fu realizzata. Già nell’Otttocento si era pensato che fosse opera di Piero della Francesca anche se poi non è mai stata confermata l’ipotesi  e ancora oggi è sconosciuto il suo autore.

Cosa si intuisce della città ideale rappresentata in queste tavole? Per prima cosa l’ opera era influenzata dalle idee di Leon Battista Alberti e seguiva il rigore matematico e scientifico di Luca Pacioli. Ciò che si evidenzia è il concetto di armonia, di misura, tipico della cultura umanistica. In mostra quindi sarà possibile comprendere il passaggio di mentalità dalla città medievale all’architettura rinascimentale, decisivo per lo sviluppo della nostra società.

Un passaggio della storia che mi ha fatto fare anche a me un salto cronologico e mi ha portato al secolo scorso quando nel 1914 fu scritto  il Manifesto della città futurista dall’architetto Sant’Elia. Secondo lo spirito futurista  si immaginava  e teorizzava  la città del futuro, una città  sempre più meccanicizzata e industriale con grandi grattaceli, uniti tra loro da grandi passerelle e terrazzi.

E così mentre nel Rinascimento l’uso della prospettiva aiutava a trovare l’armonia nella visione, l’uso della prospettiva nelle opere di Sant’Elia serviva ad esasperare il dinamismo delle costruzioni creando quasi un effetto ottico e illusorio.

Oggi ci si domanda qual è per noi la città ideale? Non certo più quella rigorosa e geometrica che governava la città del Rinascimento ma neanche più quella che saluta con ottimismo l’era dell’industria. Oggi si potrebbe dire che all’eccitamento per la modernità si è sostituito  dal  desiderio di lentezza e da architetture  ecosostenibili in linea con un maggior rispetto per la cultura del verde .

La mostra in corso è “La città ideale. L’Utopia del Rinascimento a Urbino tra Piero della Francesca e Raffaello” a cura di Lorenza Mochi Onori e Vittoria Garibaldi. Urbino galleria delle Marche. Aperta fino all’8 luglio. Per saperne di più www.mostracittaideale.it

Lingua madre (o matrigna?)

Lo abbiamo già scritto in un post di qualche tempo fa… ci piace che al Politecnico di Milano la lingua inglese non sarà più solo materia di studio, ma diventerà lingua di insegnamento e apprendimento, questo per fare fronte alla competizione globale, per attirare nuovi studenti dall’estero (soprattutto dal «far east»), per rimanere al passo con i tempi, per essere pronti e capaci di lavorare in un contesto internazionale.

La BBC, in un recentissimo articolo del sito on line, afferma che l’inglese, essendo già la lingua universalmente utilizzata nel mondo degli affari, diventerà una sorta di nuova Koiné anche per l’educazione, la ricerca e lo studio, sottolineando però quanto ciò rappresenti un pericolo per le varie lingue, culture e tradizioni regionali. Tutti noi sappiamo bene quanto questa realtà sia molto più vicina di quanto si possa immaginare (se facciamo attenzione, infatti,  in qualche film di fantascienza di ultima generazione spesso anche gli alieni capiscono e parlano perfettamente l’inglese!) e quanto il pericolo dell’essere fagocitati da una lingua, ma soprattutto da una cultura che non ci appartiene e che sotto alcuni aspetti é lontana da noi mille miglia, sia effettivamente reale.

Nel nostro piccolo, allora, siamo corse ai ripari…

Un’amica, valida, preparata ed entusiasta insegnante di italiano (!) in una scuola internazionale, ci ha chiesto di dare una mano ai suoi studenti suggerendo loro articoli, libri, siti web, che li possano aiutare nella loro ricerca su un aspetto particolare della società o della cultura italiana. Ci ha invitate a parlare con i ragazzi e noi ci siamo sentite onorate non solo di dare una mano concreta, ma soprattutto di avere l’opportunità di far conoscere meglio la nostra cultura e le nostre tradizioni,  facendone apprezzare tutti gli aspetti positivi, di cui siamo fiere. I ragazzi che abbiamo incontrato ci sono sembrati non semplicemente interessati, ma avidi di informazioni e ricchi di domande, segno che l’Italia riesce ancora a stimolare l’interesse di molti!

Sarà necessario sfatare miti (la pizza infatti non può essere considerata «vegetale»), presentare il meglio di noi (visto che il peggio lo potranno tranquillamente leggere sulle news) e il meglio di una storia di secoli, anzi no, di millenni, sulla quale è stata costruita gran parte della tradizione occidentale, senza dimenticare che fino al Rinascimento e oltre siamo stati i più grandi esportatori di cultura e che, fra il XV e il XVII secolo, si parlava italiano in tutte le corti europee.

Ora basta, sono stata sufficientemente nostalgica, ma ritengo necessario che le nuove generazioni, soprattutto quelle «straniere» tecnologiche, inetrnaute, incredibilmente pronte e capaci abbiano la possibilità di fermarsi a capire e ad apprezzare un intero sistema formato da valori, cultura, tradizioni e lingua che é parte di ognuno di noi.

La nostra stessa esperienza di italiani all’estero ci insegna che è possibile conciliare  le due dimensioni: quella della lingua materna (materna non solo perché é quella di cui le nostre madri ci hanno nutriti, insieme al latte, fin da piccolissimi, ma soprattutto perché attraverso di essa abbiamo assimilato un’identità precisa e incancellabile) e quella della lingua acquisita, sempre più spesso l’inglese, che ci nutre in un altro modo, consentendoci di sentirci cittadini del mondo in grado di comunicare, interagire e cercare di comprendere quegli “altri”, che solo attraverso la possibilità di dialogo, non fanno più paura.