Melomani è il vostro momento!

Il barone Scarpia nella Tosca, Gerdier in Andrea Chenier, Jago in Otello, solo per citarne alcuni, sono tutti personaggi corruschi e infidi. Cosa hanno in comune oltre a questa cattiveria che li porta a macchinare le più terribili cose contro i protagonisti ignari? Ma naturalmente la voce: in genere infatti gli interpreti devono essere bassi o baritoni, coloro cioè che hanno i timbri vocali più profondi.

Per introdurre l’argomento posso dirvi che l’opera alla quale siamo più abituati, quella ottocentesca, ci ha educato a un certo stereotipo a proposito dei personaggi.

In genere al soprano, la voce femminile più acuta, viene affidata la parte della protagonista che incarna la ragazza innamorata. Soprani sono le voci liriche femminili più conosciute dalla Callas alla Caballé, passando per la Tebaldi solo per parlare delle grandi nella storia. A questa voce femminile fa da contraltare la voce più acuta maschile: il tenore, che è la voce che incarna il protagonista innamorato o l’eroe (su tutti il nostro Pavarotti). Accanto a loro il contralto o mezzosoprano che dà la voce alla rivale femminile della protagonista e i baritoni o i bassi che impersonano i “cattivi” che insidiano l’amore dei protagonisti.

Insomma vale la semplificazione utilizzata da Bernard Show quando affermava che “l’opera lirica è quella rappresentazione in cui il tenore cerca di portarsi a letto il soprano, ma c’è sempre un baritono che glielo vuole impedire”.

Ma non è così semplice, se questa generalizzazione può essere applicata all’opera ottocentesca, non è così per tutta una serie di altre opere dalla Carmen di Bizet al più antico Julius Cesar di Hendel.

Amanti dell’opera dunque attenzione! Una serie di conferenze, che trovo meravigliosa, sta per essere varata a Ginevra dal Grand Théâtre de Geneve in collaborazione con l’Association genevoise des Amis de l’Opéra et du Ballet, presso il Foyer du Grand Théâtre.

È un ciclo di quattro lezioni-conferenza sulle voci nell’opera. Questo ciclo è dedicato alle voci maschili.

Ed è questo ciò che le conferenze del Gran Théâtre vogliono scoprire attraverso l’ascolto e l’esame dei diversi personaggi maschili. L’intento è dunque quello di “definire i registri vocali ed esaminare le possibili corrispondenze con le funzioni drammatiche, l’età e il sesso. Tentare una catalogazione e una classificazione delle voci nell’opera in rapporto alla storia che viene raccontata e alla Storia che la racconta”. Potrebbe essere divertente no?

Onore a chi ha coraggio

C’è un uomo in Italia, a Lamezia Terme,  che dà molta noia alla ‘ndrangheta. Per questo è da tempo che lo intimidiscono, sperando forse che possa cedere e lasciare la città per tornarsene a Brescia, da dove è arrivato nel 1976.  Certo, perché Don Giacomo Panizza è un immigrato al contrario: è andato dal Nord al Sud e ha dedicato la vita a stimolare le coscienze, in Calabria, con ininziative contro la mafia.

Attualmente ha preso in gestione un immobile confiscato alla ‘ndrangheta, o meglio alla famiglia Torcasio, nel quartiere Capizzaglie, in cui conduce le attività della comunità “progetto Sud”. In quell’immobile la comunità dà assistenza a disabili,  minori ed immigrati.

Nei giorni di Pasqua ho potuto parlare, per caso, con una ragazza che lo ha conosciuto direttamente e che ha visitato la sua comunità. Lei mi ha spiegato che questo palazzo si trova vicino ad altri tre palazzi, ancora in mano alla famiglia Torcasio. Quando è stata là  è rimasta sconvolta dagli attacchi quotidiani che Panizza subisce nel quartiere. Il suo nome, pochi giorni fa, è tornato alla ribalta sui nostri giornali perchè gli hanno sparato dei colpi di pistola, prendendo di mira la porte del palazzo.

Quel palazzo, che nessuno aveva avuto il coraggio di prendere in gestione, come ha spiegato bene il corriere della sera (11 aprile, cronache p.26), nemmeno i vigili urbani, né molti enti publici (nonostante la precarietà della loro attuale collocazione), è situtato in un quartiere troppo pericoloso. La mia amica mi raccontava della forza e della serenità di quest’uomo, che ha dedicato la sua esistenza a non piegarsi alle prepotenze, che predica da sempre contro l’omertà e che, con la sua vita, dimostra che ci si puo immaginare un modo diverso di vivere il Sud.

C’è un uomo in Italia che dà molta noia alla ‘ndrangheta e noi non vogliamo dimenticarlo.

Giappone: moda, sushi e fantasia…

Da quando dal Giappone mi è giunto in dono un fantastico libro intitolato semplicemente Sushi, che non solo ne narra la storia, ma anche la tecnica e i segreti (e credetemi fare un buon risotto alla milanese è decisamente più difficile, sebbene meno esotico), sono diventata una fan sfegatata di questo paese e delle sue stranezze.

Che il Sol Levante sia ormai il “nuovo mondo” è assodato. E molte delle nuove mode e tendenze che spopolano anche in Occidente, le più bizzarre e improbabili, arrivano proprio dal Far Far East! Questo è un argomento che solo in apparenza sembra frivolo, ma che nasconde tuttavia i segni del profondo malessere di un’intera società, basata sull’obbedienza, la disciplina, l’adesione a rigidissime regole comportamentali che annullano l’individuo per conseguire una presunta e forse impossibile armonia universale.

Senza volermi ulteriormente addentrare in questo spinosissimo argomento, voglio solo parlare di alcune tendenze dei giovani giapponesi che sottolineano la volontà delle nuove generazioni di spezzare un sistema percepito come troppo stretto e soffocante.

Sono certa che pochi di voi hanno sentito parlare di Harajuku o Agejo Girls o di Maid o Cat Cafe.

Ebbene sono solo alcune delle innumerevoli new waves seguite dal pubblico giapponese.

Le ragazze Harajuku formano una vera e propria tribù metropolitana. Per dare sfogo alla propria creatività sono alla ricerca di uno stile assolutamente personale, che sfocia inevitabilmente nella stravaganza e nella trasgressione a tutti i costi. Matrice comune è il pervicace rifiuto della moda corrente.

Le ragazze Agejo sono giovani donne che sfoggiano pelle bianchissima, occhi enormi, esaltati dal trucco e dalle ciglia finte, capigliature curatissime con capelli lunghi e boccoli, spesso biondi (???), vere e proprie bamboline di porcellana.

Ma quello che mi ha fatto impazzire veramente, mentre sul web ero alla ricerca di qualche altra gustosa chicca nipponica, sono due tipi di locali veramente trendy in questo periodo! I Maid e i Cat Cafe. Locali a tema in cui il giapponese “tipo” si rifugia per una pausa.

I primi sono locali che erano stati immaginati per gli Otaku dei fumetti (gli otaku noi li chiameremmo i malati di manga, quelli ossessionati dalle strisce) in cui la prerogativa è essere accolti da cameriere con divise che ricordano la foggia vittoriana,

ricche di pizzi e col grembiulino bianco e la crestina, ma che sono terribilmente corte. Le cameriere, addestrate a parlare e ad agire come cartoons, per metterti a tuo (dis)agio accolgono il cliente con la frase “ben tornato a casa, onorato padrone”. E basta questo, pare, per mandare in visibilio il popolo maschile giapponese, ma non temete donne, esiste il corrispettivo femminile: i Butler’s cafe (che orrore!).

Ebbene il pezzo da novanta per me sono i Cat cafe, e mi commuovo pensandoci, non certo per l’amabilità dei quieti gattoni che vi circolano, quanto piuttosto al pensiero di quanto possano sentirsi soli e disperati i frequentatori di tali locali, forzati a non poter neanche possedere in casa propria un animale assolutamente non invasivo come il gatto. Infatti si tratta di luoghi in cui bere, comodamente seduti, un caffè, godendo del privilegio di coccolare un gatto!

…ci piace

Ci è piaciuta la scelta del Politecnico di Milano che, dal 2014, terrà i corsi dei bienni specilistici e dei dottorati in inglese.

Siamo d’accordo con il rettore Giovanni Azzone quando afferma che i nostri giovani  devono avere  “oltre alle competenze scientifiche anche un’apertura culturale internazionale”. Perchè –come dice Azzone- “un ragazzo che si affaccia al mondo del lavoro deve abituarsi a lavorare in contesti internazionali. E poi in questo modo si possono attrarre anche studenti stranieri , un valore aggiunto per il nostro paese”.

Quando Kylie Minogue non ti lascia in pace!

Qui si parla troppo poco di musica! Allora ho pensato di iniziare con qualcosa di semplice!

Cosa ne pensate del motivetto che si installa nella testa perseguitandovi e che più tentate di scacciare più diventa noioso ed infestante? Vi sforzate di non sentirlo, fate finta di niente e proprio quando credete di averlo dimenticato, eccolo che ricompare con più vigore di prima. Inevitabilmente si tratta della strofa più cretina della più insipida canzonetta ascoltata alla radio (mai il Requiem di Mozart o la Nona di Beethoven, e tutto sommato è meglio così, pensate al turbinio di strumenti nel cervello!) il problema è che resta ficcata in testa per ore se non per giorni (un medico indiano ha curato senza successo un giovane uomo che per 5 anni ha “subito” una canzone indiana che faceva parte di una colonna sonora di un film di Bollywood, che suonava nel suo cervello in spezzoni che andavano dai 2/3 minuti ai 45!!!).

Ebbene in lingua inglese questa chicca si chiama earworm e senza arrivare ai casi limite, come quello citato, che sono lo specchio di disordini psichici di una certa rilevanza, ognuno di noi almeno una volta nella vita ha provato questa sensazione (quante volte abbiamo esclamato spazientiti: “è da stamattina che mi è rimasta in testa sta canzone!”)

Naturalmente il fenomeno è stato ampiamente studiato e discusso. Una ricerca del Dartmouth College, in New Hampshire del 2006 dava addirittura una classifica dei Top 10 earworms (1. Kylie Minogue, Can’t Get You Out of My Head; 2. James Blunt, You’re Beautiful; 3. Baha Men, Who Let the Dogs Out; 4. Mission Impossible theme; 5. Village People, YMCA; 6. Happy Days theme; 7. Corinne Bailey Rae, Put Your Records On; 8. Suzanne Vega, Tom’s Diner; 9. Tight Fit, The Lion Sleeps Tonight; 10. Tiffany, I Think We’re Alone Now, se volete farvi del male potete ascoltarle tutte in rapida successione!). Più recente è la ricerca della Goldsmiths University di Londra, che, dopo aver raccolto un database di ben 5000 (!) eraworms ha smentito la possibilità di farne una classifica, ma ha stabilito la connessione fra un certo tipo di canzone (semplice e ripetitiva) e il fastidioso fenomeno.

Nel libro Musicofilia (ed. Adelphi) Oliver Sacks afferma che questi motivetti infestanti sono frutto della forte sensibilità del nostro cervello alla musica. La musica infatti, tutta quella ascoltata, scava nel profondo di esso solchi indelebili e basta un aggancio, anche vago, rappresentato da un verso o da un particolare giro di note a far scattare una sorta di giradischi mentale che segue i solchi già tracciati da altri motivi nel tempo. Un po’ come accade con la sensazione del dejà vu che alcuni studiosi giustificano con l’utilizzo da parte del cervello di chiavi già usate in altre circostanze che fanno scattare la serratura di ricordi antichi sedimentati nella mente facendoli in qualche modo rivivere involontariamente (il già vissuto)…

Dopo aver parlato di cosa sono gli earworms, passiamo ad esaminare come scacciarli. Esistono diverse teorie: cantare e ricantare il motivetto fastidioso fino allo sfinimento o provare con il rimedio del “chiodo scaccia chiodo”, concentrandosi, ad esempio, su James Blunt per scacciare Kylie Minogue (se poi si installa lei sono tutti affari vostri!). O ancora meglio, poiché l’earworms “infetta” quella parte del cervello che si chiama orecchio interiore deputata a ricordare numeri di telefono, di conto corrente, combinazioni  e passwords, provate a dedicarvi al ripasso integrale e totale dei numeri e dei codici che irrompono giornalmente nella vostra vita, probabilmente perderete il senno, ma il cervello così distratto forse dimenticherà il fastidioso baco!

Quante mogli quanti mariti?

Chissà se è capitato anche a voi di giocare ad un vecchio gioco che si faceva in Toscana dal titolo Quante mogli quanti mariti?. Un gioco “bischero” come viene definito dai due autori del libro Si giocava a schioppapalle, Vittorio Innocenti e Tiziana Vivarelli (ed. Polistampa).

Bischero,  per noi vuol dire un po’ grullo e la parola, tutta toscana,  si associa alla famiglia fiorentina dei Bischeri, che durante la progettazione di Santa Maria del Fiore si rifiutarono di vendere al Comune , ad un prezzo molto buono, l’area su cui sorgevano le sue case per poi svenderle successivamente quando vennero bruciate da un incendio.

Il gioco, che appunto ho ritrovato in questo curioso libro di giochi e giocattoli della tradizione, si faceva in primavera nei prati, dove si raccoglievano dei fili d’erba particolari che avevano spighe sottili e si usavano per tirarle addosso ai compagni. Le spighe rimaste attaccate ai vestiti del portatore avrebbero rivelato il numero delle moglie e dei mariti (a secondo se era un bambino o una bambina) che sarebbero toccati da grandi.

Anche io ho sorriso quando ho ritrovato quel gioco nel libro e mi sono ricordata quante volte l’ho fatto e quanta attenzione mettevo al numero che usciva!

… sì, viaggiare!

Aprire gli occhi sul mondo, tentare di comprendere altre culture dimenticando le proprie routine per assorbirne di nuove, essere senza pregiudizi di fronte al diverso in qualsiasi forma ci si presenti, pur conservando una profonda identità che mi lega alle mie radici, ecco cosa significa per me viaggiare.

Prendere un treno, un aereo, l’auto per andare altrove è una sensazione fantastica e ogni volta mi da una scarica di adrenalina che potrebbe svegliare anche l’animo più sopito.

E l’essere in viaggio, ancor prima dell’arrivare, mi procura una gioia immensa.

Riesco ad apprezzare perfino le sale d’attesa delle stazioni o i luoghi di transito degli aeroporti.

Provo, infatti, un fremito nei grandi terminal internazionali… Seppellitemi all’aeroporto di Changi a Singapore o fatemi morire di caldo per i problemi all’aria condizionata nell’aeroporto di Adelaide in Australia (40 gradi all’esterno probabilmente un milione all’interno) o ancora fatemi atterrare a Koh Samui dove il terminal è tutto fiorito e i passaporti li controllano sotto una costruzione in stile Thai e io vi ringrazierò di aver avuto l’opportunità di vivere l’esperienza.

Gente che va e viene, storie che si incrociano, colori, suoni, luci, profumi (e puzze, per carità).

Lo spostamento mi intriga, grazie ad esso riesco a guardare il mondo con occhi nuovi e con l’animo dei bambini e ringrazio il cielo di aver avuto la possibilità finora di averlo potuto fare… ma se spostarsi fisicamente un domani mi fosse precluso? Allora senza indugio farei scattare il mio piano B, che già utilizzo abbondantemente: il web… Navigare, o meglio “surfare” grazie a Internet attraverso paesi, idee, scritti, lingue diverse… chi lo avrebbe mai potuto immaginare fino a qualche anno fa… allora, dalla mia poltrona, sì che potrei cantare con Battisti: sì viaggiare, evitando le buche più dure

Storie private ormai di tutti

Ilaria, una giovane e bella ragazza ventenne, arriva a Lucca nel 1403 per andare sposa al nobile Paolo Guinigi, signore della città. La cerimonia si tiene nella chiesa di San Romano e si festeggiano le nozze per tre giorni e tre notti. La moglie dà alla luce il primo figlio, Ladislao ,assicurando l’erede al casato,  ma muore durante il parto della seconda figlia, Ilaria la minore. Le cronache raccontano che la sua morte causò un grande dolore al marito, il quale decise di far realizzare un sarcofago rappresentante la moglie addormentata nel sonno eterno, con l’intento di metterlo nella cattedrale di San Martino.

L’arte può aiutare a placare il dolore? Paolo Guinigi chiamò uno dei più grandi artisti del suo tempo, lo scultore Jacopo della Quercia,  che realizzò un capolavoro della scultura quattrocentesca.

Ilaria venne rappresentata su un basamento di marmo decorato da putti e festoni. Ha gli occhi chiusi ma  sul volto non si vede la morte, la giovane infatti sembra dormire vestita con un abito elegante e raffinato. La testa è appoggiata su un cuscino e l’abito è rialzato ai piedi, dove lo scultore ha posto un piccolo cane, simbolo della fedeltà coniugale.

Quando il casato dei Guinigi cadde in disgrazia il sarcofago venne spogliato di tutti i riferimenti familiari, come lo stemma e l’iscrizione dedicatoria. Ma nessuno toccherà la figura di Ilaria, così sublimemente addormentata e bella: in breve tempo, questa figura angelica divenne quasi sacra per i lucchesi . Tutti sentivano il desiderio di vederla e sfiorare il suo corpo di marmo.

Potenza dell’arte: un’opera nata per consolare un dolore personale, venne spogliato dei suoi riferimenti storici e di appartenenza e divenne il simbolo di una città.

Così, passeggiando per Lucca pensavo al suo volto e ai tanti volti dell’arte. Pensavo ai coniugi Pandofini, al volto della Monnalisa e a quello immortalato da Andy Warhol di Marylin Monroe . E riflettevo su come l’arte può andare oltre  anche gli eventi della storia.

… ci piace

… ci è piaciuta la campagna dell’Unicef IO COME TU, con la quale la nota organizzazione internazionale ha sollecitato  l’Italia a rivedere la legge sull’acquisizione della cittadinanza italiana. La legge riguarda i destini di 650 mila bambini nati in Italia da genitori stranieri.

Secondo indagine commissionata dall’UNICEF, che ha coinvolto 518 adolescenti, di cui 118 di origine straniera, è emerso che il 22.2%  del campione degli adolescenti di origine straniera ha subito in prima persona manifestazioni di razzismo.

Tutti uguali davanti alla vita, tutti uguali davanti alla legge.

L’uomo è un albero del campo

Per me l’ULIVO è come un nonno, con il tronco corto e contorto, rugoso, arcigno e ben piantato, non ha delle fronde rigogliose, le sue foglie lanceolate sono verdi e grigie ma nell’insieme e da lontano i suoi colori ricordano l’argento. E’ una pianta longeva cosicché gli ulivi più vecchi hanno visto tanta storia passare. E’ una pianta generosa: non manca mai di dar frutto.

Da sempre è simbolo della pace. Per le nostre tradizioni è anche segno di  rinascita di riconciliazione tra gli uomini e Dio. Tutti infatti ricordano la colomba con in  becco un ramoscello di ULIVO quando vola verso Noè per avvisare la fine del Diluvio.

Originario dell’Asia Minore l’ULIVO è come il patriarca della cultura mediterranea che unisce tutti i paesi affacciati    sul mediterraneo. E’ sacro per i cristiani e per gli ebrei e per i musulmani.

Dall’ULIVO già i fenici, i greci e i cartaginesi commerciavano l’olio usato come alimento ma anche come unguento per il corpo o per l’illuminazione, come alimento per le lucerne..

In arte l’ULIVO ha trovato sempre un posto importante basta ricordare i ramoscelli di ulivi tenuti in mano dagli angeli dipinti nella Natività mistica  di Sandro  Botticelli (1501 National Gallery di Londra ) o ancora la bella testa di Pallade, nel dipinto  Pallade e il centauro sempre di botticelli, cinta di una corona d’ulivo.

E anche ai nostri giorni richiama l’attenzione de gli artisti. Tra gli altri, ricordiamo l’artista israeliano Dani Karavan e il suo lavoro Tzmicha-Crescita del 2001-2002 realizzato per il parco della Padula a Carrara durante la XI Biennale Internazionale di scultura.

In questo lavoro l’artista ha provocato un’esplosione in una  lastra di marmo, creando un vuoto al centro nel quale ha piantato un albero di ULIVO.  Da un’atto violento come un’esplosione si è generato  uno spazio per la pace.

Così ha detto l’artista “le sue foglie sono verdi e grigie l’albero legherà la scultura al luogo, le sue radici legheranno il marmo con la terra, e se un giorno qualcuno vorrà spostare la scultura dovrà sradicare anche l’albero: l’ulivo”.

Sulla lastra si trova incisa  una frase in ebraico dalla Bibbia : “l’uomo è un albero del campo Deuteronomio 20.19.