Ciao Lucio… e grazie!

Lucio Dalla si è spento ieri a Montreaux durante il suo tour in Svizzera, stroncato da un infarto.

L’aver preso congedo dal mondo in un modo così repentino e tragico, ci ha lasciati di stucco. Per un momento è come se si fosse spezzata una parte dei nostri legami con il passato.

Dalla è stato un pilastro della canzone d’autore, ha attraversato con i suoi testi e la sua musica quasi 50 anni di storia italiana. Come tutti i grandi è passato attraverso fasi differenti e si è valso della collaborazione di nomi famosi: uno su tutti Francesco De Gregori.

Lucio Dalla è stato un curioso, ha esplorato tanti campi musicali e le arti in genere come dimostrano le sue frequentazioni  e le sue amicizie con grandi artisti, poeti, intellettuali e scrittori italiani quali Michelangelo Pistoletto, Aldo Mondino, Andrea Pazienza, Pier Vittorio Tondelli, Giacomo Campiotti,  Mimmo Paladino, Enrico Palandri, Enzo Cucchi, Gian Ruggero Manzoni,  Luigi Ghirri, Luigi Oldani.

Forse i più giovani non sono altrettanto colpiti quanto noi da questa perdita, e per noi intendo quelli della generazione dei telefoni a gettoni, del mangiadischi e della Vespa PK. Per noi  Dalla è stato un mito. Ci ha accompagnato nelle contestazioni al liceo e con il suo cappellino di lana in qualche modo ha incarnato chi si voleva ribellare al «sistema».

Negli ultimi anni si era in effetti un po’ perduto in questo sistema, ma la sua musica non ha mai tradito i suoi fan.

Lo vogliamo ricordare così, alla Amarcord, riesumando un suo pezzo che non tutti ricordano ma che ci ha aiutati, noi bambini degli anni settanta, a conoscerlo e ad apprezzarlo.

Il libro: il miglior amico dell’uomo

Oui au Livre, l’11 marzo prossimo la Legge Federale sul prezzo fisso dei libri (LPlib), adottata dal parlamento svizzero e contestata da un successivo referendum, sarà sottoposta a votazione popolare.

E scommetto che molti, impreparati e distratti come me, ascoltando la notizia alla radio o leggendola sui giornali abbiamo pensato “era ora che qualcuno ci pensasse, i libri costano sempre di più”.

Ma non è tutto qui!!

Se leggiamo con attenzione il testo della legge, infatti, ci rendiamo conto che essa non è stata pensata tanto per per “calmierare” in qualche modo il prezzo dei libri, quanto piuttosto per salvare  dalle fagocitanti grandi catene di distribuzione la piccola impresa, la libreria di paese, la romantica e un po’ sbiadita figura del libraio dedicato ai suoi volumi e al suo negozio.

La legge vuole disciplinare “il prezzo dei libri nuovi, privi di difetti, scritti in un lingua nazionale svizzera, editi, importati o commercializzati in Svizzera” (e attenzione solo dei libri, non sono presi in considerazione altri prodotti editoriali quali ad esempio i periodici), stabilendo che il prezzo finale del prodotto, compreso di imposta sul valore aggiunto, venga determinato dall’editore o dall’importatore e pubblicato prima dell’uscita del libro. Il Sorvegliante dei prezzi (M. Prix!) può proporre al Consiglio Federale di stabilire mediante un’ordinanza “le differenze massime di prezzo ammesse rispetto all’estero, tenuto conto delle regioni linguistiche” (piuttosto complicato, no?), ma niente di più. La legge poi recita: “i librai possono vendere i libri soltanto al prezzo fisso di vendita stabilito” come prezzo finale da editore o importatore.

Tutti coloro che avevano fantasticato allora su un tetto massimo al quale sarebbero stati venduti i volumi, ad esempio a seconda delle pagine, del peso, dell’edizione, delle fotografie o dei contenuti…, insomma i bibliofagi incalliti pronti a tutto pur di acquistare un nuovo volume, rimarranno delusi nell’apprendere che il termine prezzo fisso si riferisce alla durata del prezzo al quale viene venduto il libro (18 mesi) e alla possibilità di applicare a questo prezzo degli sconti, regolati ora per legge secondo una tabella precisissima (al dettaglio lo sconto potrà essere massimo del 5%) e impedendo dunque alla grande distribuzione di praticare gli usuali ribassi.

Lo scopo dichiarato è quello di “promuovere la varietà e la qualità del bene culturale libro e garantire che il maggior numero di lettori abbia accesso ai libri a condizioni ottimali” evitando che la piccola impresa, il libraio al quale ci si rivolge per l’edizione introvabile, per un consiglio o per una chiacchiera non scompaia definitivamente e diventi solo un bel ricordo.

Forse la legge è pensata affinché non ci perdiamo nei locali patinati e alfabeticamente ordinati delle grandi catene di librerie, tanto efficienti quanto asettiche, o piuttosto nelle pagine delle librerie elettroniche che disumanizzano ancor di più il prodotto.

Ma, secondo voi, questa legge sarà in grado di conservare integra la figura del libraio (o meglio resuscitarla) o, disperati per il costo dei volumi, ci getterà definitivamente in pasto a Internet, dove l’acquisto, si sa, sebbene ancor più disumanizzato è decisamente più economico?

Un passaporto per le arti: libera circolazione alle idee

La Gioconda, particolare del dipinto, Leonardo da Vinci, circa 1503-1507

Leonardo nel 1516 lascia l’Italia per la Francia per andare a lavorare alla corte di Francesco I, con se porta alcuni dipinti tra cui La gioconda che, dopo la sua morte (1519), entra ufficialmente nelle collezioni del re di Francia. Il dipinto riscuote da subito amplissima attenzione e, nel corso dei  secoli, diventa forse l’opera d’arte più famosa del mondo.

E’ giusto fermare gli artisti alle frontiere? Possiamo impedir loro di muoversi liberamente? Cosa tolgono le frontiere al mondo?  “ Ringrazio il destino per avermi condotto sulle rive del Mediteraneo” diceva Marc Chagall, nel 1950, quando si stabiliva definitivamente a Vence in Costa Azzurra. Lo stesso stupore felice doveva aver provato Picasso che, sempre in quegli anni, scopriva la passione per la ceramica, lavorando a Valluris. E cosa pensare delle migrazione di artisti europei in America, tra le due guerre? Saranno loro a produrre la base per l’arte americana del dopoguerra. Tra gli artisti viaggiatori penso all’artista Alighiero Boetti che, nei primi anni Settanta, si recò più volte in Afghanistan creando le famose Mappe di cui qui sotto vedete un’immagine.

Alighiero Boetti, Mappe,1972-73

Il desiderio di muoversi degli artisti sembra aver suscitato anche l’interesse della Tate Britain, che ha inaugurato da poco a Londra la mostra  Migrations: Journeys into British Art. In questa esposizione si è tentato di coprire l’arte a partire dai secoli XVI-XVII, per giungere sino ai nostri giorni, tracciando una mappa di tutti quegli artisti non inglesi che hanno risieduto in Inghilterra e hanno contribuito alla scena artistica del paese. La mostra parte da Van Dyck, passando per l’arte di Whisler, e poi di Mondrian, per arrivare ad artisti contemporanei come la belga Francis Alys che, lasciata  l’Inghilterra, attualmente vive e lavora a Messico City.

L’anima sdoppiata di quelli in transito

Molti di voi, come me, approfittando della settimana di vacanza tradizionalmente dedicata allo sci, sono partiti per fare un saluto a casa.

Siamo tornati a “casa”… dopo un viaggio più o meno lungo, eccitati, contenti di riabbracciare i cari e gli amici.

Un sabato italiano, finalmente: un “giro” in centro, un cappuccino fumante (quello tiepido, con poca schiuma, come piace a Nanni Moretti), un aperitivo in piazza, sfogliando il giornale seduti all’aperto, mentre il sole di febbraio incomincia a scaldare.

Si parla con qualche amico ritrovato del più e del meno (lo sport, il tempo, la politica, la mazzata fiscale). In fine dopo un paio di “vasche” per negozi, si chiude la giornata con una pizza e una birra come Dio comanda (tirando un sospiro di sollievo guardando il conto)!

Tutto questo ci è mancato, più di quanto siamo disposti ad ammettere, in più ci accompagna quella specie di elettricità – un’eccitazione sottile – perché siamo a casa sì, e allo stesso tempo siamo in vacanza e non ci si deve preoccupare del lavoro, degli orari, delle difficoltà. Il sorriso si è installato sulle nostre labbra.

Ma per qualche particolare (la verdura dimenticata in frigo, un appuntamento da disdire) che all’inizio fa capolino distrattamente in un angolo remoto del nostro cervello, la mente ci strappa da questo stato di beatitudine e ci riporta alla nostra vita quotidiana altrove, in quell’altrove – a volte subìto a volte desiderato con forza – che ci rende comunque un po’ speciali agli occhi di tutti quelli rimasti a casa.

Lo spiraglio lasciato aperto da queste riflessioni leggere si spalanca e si reagisce quasi con rabbia al dilagare di pensieri altri che fanno parte della nostra vita altra.

La sensazione è quella di essere sdoppiati: una parte di noi è presente qui e una parte è rimasta lì.

L’impressione è quella di essere inadeguati ovunque, ormai fuori dalla routine quotidiana qui, e in cerca di nuove consuetudini là, rincorrendo qualcosa che non è più qui, ma che ci chiediamo, stupiti, se possa essere là.

Il desiderio di “ritornare a casa” quando si è all’estero è sempre fortissimo per quelli in transito, ma una volta a casa la sensazione di essere fuori posto, sbagliati, storti è sempre presente e si finisce per sentirsi turisti in un paese esotico, stranieri in casa propria e tutto sommato contenti di poter ripartire per quell’altrove che non è più un luogo fisico, ma che a lungo andare diventa un rifugio dell’anima.

The Iron Lady: mi fa “pensare” doppio

Per me il film poteva essere intitolato: The two Iron Ladies. Infatti, appena uscita dal cinema, non riuscivo a pensare in un’unica direzione: ero affascinata dalla forza e dalla determinazione della donna Margaret Thatcher e, nello stesso tempo, sentivo ancora una volta la forza e la grande personalità dell’attrice  Meryl  Streep. Questa duplice sensazione mi ha accompagnato per un bel po’ dopo il film. E ora, che sono ben contenta che Meryl Streep abbia vinto il suo Oscar come miglior  interprete femminile, lascio da parte l’attrice per tornare al personaggio Thatcher. La forza e la durezza di questa donna hanno un qualcosa per me di familiare, spesso ho trovato la stessa caratteristica in tante persone della sua generazione. A lei posso inoltre attribuire una rara  intelligenza, che le ha permesso di arrivare ai posti di comando, dove le donne devono dimostrare, ancora una volta, il doppio delle loro capacità. Mi ha spiazzato la rappresentazione del doloroso e distaccato rapporto che la donna Thatcher ha con la figlia. L’incertezza di quest’ultima, infatti, stride con la voglia di vincere della madre e così, mentre l’una accetta ogni difficoltà come una nuova sfida, l’altra sembra non aver ancora trovato il suo spazio nella vita.

Il film non aiuta a comprendere il periodo storico in cui operò, da primo ministro, Margaret Thatcher. Vi sono vaghi accenni alle grandi battaglie sociali che agitarono l’Inghilterra di quegli anni, ma niente si dice del ruolo internazionale della signora come alfiere del cosiddetto neoliberismo (assieme a Ronald Reagan, che ne fu il massimo esponente politico). Solo menzioni di sfuggita alla caduta del muro di Berlino, agli incontri coi grandi di allora. Si percepisce il suo antieuropeismo, ma non si spiega nemmeno quello. Solo l’inutile guerra delle Falkland riceve ampia attenzione, ma anche qui solo per sottolineare che era davvero una dama di ferro.

Il film è godibilissimo, con una grandissima prova di Meryl Streep, che si dimostra di nuovo la grande regina del cinema del nostro tempo.

Uno scatto dietro la tenda: Derriére le rideau,Musée de l’Elysée,Losanna

A chi non è capitato di farsi una foto tessera in una di quelle macchinette che si trovano nelle stazioni, o vicino ai centri commerciali e non ha provato un po’ di emozione chiudendo la tendina, aggiustandosi per l’ultima volta i capelli e mettendosi in posa? Pochi minuti, quattro scatti e la foto è pronta.

Ricordo addirittura un’amica che si fermava per farsi  una foto tessera-ricordo con il figlio, in qualsiasi posto visitasse.

Indimenticabile poi il film Il mondo di Amelie dove si scopre che il ragazzo innamorato della protagonista è un collezionista di foto tessera abbandonate nei pressi delle macchinette. Quel film ha influenzato più di un collezionista e se non mi credete andate a visitare l’interessante mostra che si è aperta da pochi giorni a Losanna al Museo dell’Elysée dal titolo Derriere le rideau, l’Estetique Photomaton des surréalistes a Cindy Sherman en passant par Andy Warhol (17 febbraio-20 maggio). Una mostra che racconta della fortuna delle foto tessera, nata con l’installazione delle prime macchinette  alla fine del 1920. In mostra le foto sono state usate come strumento artistico e come oggetto da collezione. Vi si trovano le foto tessera da cui Andy Wharhol  ha realizzato i suoi quadri, oppure le tracce dell’interesse suscitato da questa tecnica fotografica nei surrealisti.  In mostra troverete anche opere di artisti più recenti come la piccola raccolta a mazzetti dove sono ritagliati i volti di Anne Deleporte. C’è anche la storia dell’ installazione Esposizione in tempo reale dell’artista italiano Franco Vaccari. L’opera, presentata alla Biennale di Venezia del 1972, consisteva in una di quelle quelle macchinette per foto tessera collocate nella stanza. Gli spettatori erano invitati a farsi la foto e a lasciarla sulle pareti della stanza, come prova della performance così realizzata. In mostra a Losanna ci sono alcune di quelle foto fatte durante la Biennale e la suggestione di quei volti è potente e ti riporta indietro all’atmosfera di quegli anni.

Gillian Wearing, Self Portrait at 17 Years Old, 2003

Una foto tessera nasce per un’utilità: è lo strumento che indica la nostra identità e ci serve per qualunque attestato di riconoscimento. E di questo aspetto la mostra non si dimentica e ci lancia tre domande a cui riflettere: Chi sono io? Ovvero la macchina mi dà un’opportunità per mostrarmi; Chi sei tu? La fototessera mi permette di identificare l’altro e guardarlo;  Chi siamo noi? Ci permette di pensarci come gruppo, più ritratti e dunque rappresenta un’identità sociale.

Nella mostra infine non manca il riferimento al cinema e se avete tempo potete vedere varie scene tratte  da film famosi, con la nostra macchinetta in primo piano.

 

la torta di mele di nonna Ornella

Ci sono cose che non hanno prezzo .

Per noi, sempre in transito, una di queste è la torta di mele della nonna Ornella. E’ una torta dell’affetto e del bentornato.  Si materializza infatti ogni volta che torniamo in Italia e a volte come per magia riesce anche a precederci e la troviamo in casa, prima del nostro arrivo. Una volta è stata  portata anche  in trasferta, ma i viaggi non sono il suo forte e anche a vederla  non sembrava più lei.

Ecco dunque la ricetta:

2 kg di mele

50 g di margarina (da spalmare sulla teglia)

100g ancora di margarina

10 cucchiai di zucchero

300 g di farina bianca

1 uovo

1 presa di sale

Acqua tiepida quanto basta

Spalmare sulla teglia la margarina, cospargerla con 5 cucchiai di zucchero, tagliare le mele  e disporle nella teglia a corona, coprendo anche il centro. Spargere le altre 5 cucchiaiate di zucchero sulle mele e mettere la teglia sul fornello a fuoco medio (lasciarle cuocere per 20-30 minuti).

Impastare la farina con gli ingredienti sino a formare un palla da deporre sotto un tegame scaldato sul fornello . A cottura ultimata delle mele, stendere la pasta su un disco, deporlo sulla teglia e bucare con i rebbi di una forchetta.

Infornare a 180° per circa 30-40 minuti. A questo punto capovolgetela e  sarà pronta.

Allora provate ma ricordate che senza i nonni che gusto c’è!

Contaminazioni

Contaminazione. Un’altra bella parola che inevitabilmente irrompe nella vita di ogni persona “in transito”.

Contaminazione da contaminare, non col valore negativo sinonimo di contagiare, inquinare o sporcare, ma con il significato di incrocio, nel nostro caso, di vite e culture.

Gli esempi più calzanti sono in letteratura dove contaminazione  è la “fusione di elementi di diversa provenienza nella creazione di opere letterarie”; e in linguistica dove il termine designa un “incrocio di due forme o due costrutti, l’unione dei quali costituisce una nuova forma o un nuovo costrutto” .

Per noi che viviamo all’estero il termine contaminazione non si applica solo a meri esercizi linguistici o retorici, ma diventa pratica di quotidiano equilibrismo. Noi, che nella vita di tutti i giorni, dobbiamo interagire non solo attraverso lingue differenti, ma anche con differenti stili di vita e diversi modi di pensare, siamo diventati, spesso nostro malgrado, “maestri” della contaminazione. Usi, costumi, mentalità, specchio di altre tradizioni, entrano prepotentemente nelle nostre case e la necessità palese è quella di adeguarsi alle nuove situazioni, aprendo la mente e accogliendo per quanto siamo capaci le diversità, incrociando appunto la nostra vita a quella di altri che mai avremmo pensato o previsto di incontrare.

Per chi è rimasto in Italia, le cose non sono poi così diverse, si può affermare forse che è differente il modo di “contaminarsi”. Chi è a casa non è più attore della contaminazione, quanto piuttosto fruitore (se al termine diamo accezione positiva) o come dicono alcuni (i meno illuminati) la subisce.

Tutti però, sia chi è andato e sia chi è rimasto, arriviamo al punto dolente.

Oltre a fare il brunch la domenica invece del classico pranzone di italica memoria, oltre a mangiare volentieri il currywurst al posto della salsiccia della Festa dell’Unità,  saremo in grado di andare più a fondo e di trasformarci veramente  in cittadini del villaggio globale, pronti ad accettare le sfide vere che la contaminazione ci lancia (scontri di pensiero, di sensibilità, di visioni del mondo)? E chi è rimasto a casa e vive ormai in una società multirazziale saprà offrire, facendo leva sulla nostra tradizione di accoglienza millenaria, la possibilità di realizzare osmosi azzardate, in cui vecchio e nuovo si incrociano e creano un melange originale?

Queste sono le sfide alle quali ci dobbiamo preparare, tutti.

Per i viaggiatori in cerca di storie:la città diario di Pieve Santo Stefano

Se si pensa alla forma narrativa più consona al viaggiatore viene subito in mente di pensare al diario.  Pensiamo ai diari del Grand Tour scritti dai ricchi e giovani aristocratici che, dal XVII secolo, girano per la Francia, l’Italia e la Grecia, nell’intento di entrare in contatto con la cultura e l’arte di quei paesi. Dal 1786, per due anni, Johann Wolfang von Goethe viaggiò per l’Italia e i suoi appunti di diario divennero, successivamente la base per il suo romanzo epistolare, Italienische Reise (Viaggio in Italia).

Il diario è la memoria di ciò che è stato e di come lo abbiamo vissuto, è qualcosa di intimo: due occhi che hanno visto e che raccontano filtrando la realtà attraverso le proprie emozioni. I diari sono utili agli storici ma anche ai poeti. Ecco perché i diari sono un tesoro dell’umanità. E questo lo aveva ben chiaro il giornalista e scrittore Saverio Tutino fin da quando, nel 1984, propose all’allora sindaco di Pieve Santo Stefano di fondare nella città il primo archivio dei diari, per trasformare la cittadina toscana in un centro di raccolta della memoria italiana. Così è stato e Pieve Santo Stefano, da quell’anno, si è trasformata nella “città del Diario”: una banca della memoria  per la conservazione di testimonianze biografiche. Dall’archivio è  nato, fin da subito, il  Premio Pieve, un premio nazionale per diari inediti. Tra gli intellettuali che fin dal principio si appassionarono al progetto della Pieve, c’era Natalia Ginzburg che seguì il premio e firmò anche alcune prefazioni dei libri editi dall’Archivio.

Nel 1998 è nata anche una rivista semestrale, intitolata Primapersona. L’archivio successivamente viene messo su internet all’indirizzo www.archiviodiari.net.

Tra i diari più citati rimane quello spedito alla città il 1986 da Clelia Marchi, una contadina di Poggiorusco (Mantova) che in una notte ha deciso di cominciare a scrivere tutta la sua vita su un lenzuolo matrimoniale. Si trattava del lenzuolo della dote che, oggi, morto l’amato marito Anteo, non le serve più: “care persone fatene tesoro, di questo lenzuolo, che c’è un poco della vita mia; è mio marito; Clelia Marchi (anni72) ha scritto la storia della gente della sua terra, riempiendo un lenzuolo di scritte,dai lavori agricoli, agli affetti (…)” . Oggi si può leggere quel lenzuolo visitando l’Archivio  nel Palazzo Pretorio di quella curiosa cittadina.

Les salles d’attente en Europe

Les salles d’attende de l’Europe foto di Malika Gaudin Delrieu

Le sale d’attesa per l’Europa è il titolo della mostra fotografica di Malika Gaudin Delrieu allestita presso la Galerie Focale di Nyon aperta fino all’11 marzo prossimo.

Le sale d’attesa sono, per la giovane artista francese, i luoghi in cui risiedono i rifugiati in attesa di ottenere il permesso di soggiorno nel paese in cui sono approdati.  In due anni di lavoro la fotografa ha esplorato questa realtà a Malta, Ceuta e in Grecia.

La scelta fatta dalla fotografa non è quella di offrire una visione generale della vita di questi persone che richiedono asilo. La mostra, infatti, non è un reportage giornalistico, ma è piuttosto il tentativo   di fermare l’atmosfera di sospensione e abbandono in cui vivono queste persone in transito.

Il viaggio iniziato per andare incontro alla libertà e a migliori condizioni di vita si è bloccato, si è  arenato, costringendo queste persone a una sospesa immobilità che li rende prigionieri di un luogo senza speranza, senza nessun tipo di calore umano o accoglienza. Il filo spinato fotografato come un decoro verso il cielo, le sbarre, le reti e i muri sono gli arredi di quelle sale d’attesa.  Sono anche i  confini delle loro esistenze: separano da un mondo esterno che non vuole vedere questo fenomeno dell’immigrazione dai paesi in via di sviluppo, racchiudono un terreno fertile per la frustrazione, l’angoscia e tanta rabbia .

La galleria Focale è una piccola galleria e libreria specializzata in fotografia. Chi volesse visitarla sappia che ha anche una piccola libreria ben fornita