La sala di lettura

Roberto Barni
Roberto Barni

Irène Némirovsky, Suite francese

È appena uscito nelle sale cinematografiche Suite francese, tratto dal magistrale romanzo di Irène Némirovsky che porta lo stesso nome. Una strana operazione che, sebbene abbia forzatamente incentrato l’intera pellicola solo su una delle tante vicende narrate nel libro, ha avuto l’indubbio valore di riportare alla memoria del pubblico un’opera letteraria di incredibile pregio, nata da una penna tormentata. In effetti quella della Némirovsky è una storia unica nella sua tragicità.

Figlia di genitori benestanti, di origine ebraica, l’autrice ha attraversato non solo l’intera Europa per sfuggire alle devastazioni della guerra, ma soprattutto un’intera epoca di cui ha saputo riportare il clima di orrore e violenza. Nata a Kiev nel 1903, nel 1913 si trasferisce a San Pietroburgo e nel ’18 sfugge alla Rivoluzione Russa passando per la Finlandia, Stoccolma e infine la Francia, che diventa patria di adozione. A Parigi scrive e crea storie su un’umanità spezzata dal dolore e dalla insensatezza della guerra, storie di personaggi che come lei hanno lasciato tutto dietro di sé per ricominciare e ricominciare da capo ogni volta. Il suo bisogno di scrivere nasce da un confronto rabbioso contro il “destino femminile”, contro quel ruolo preconfezionato, assegnato nei secoli alle donne: madri, sorelle, amiche amanti. Ed è in Francia che andrà incontro al suo destino, che nonostante la sua chiara visione della vita, non seppe prevedere per sé e per tanti altri come lei. Il 13 luglio del 1942 infatti, sotto il governo di Vichy, Irène viene arrestata perché di origine ebraica, strappata all’affetto delle sue due figlie (che conserveranno nel cuore per sempre il ricordo della mamma tanto da custodirne gli scritti e fare in modo che fossero pubblicati), deportata ad Auschwitz dove morirà il 17 agosto dello stesso anno.

suite franceseI personaggi di Irène Némirovsky sono privi di cielo e di orizzonte, lontani da ogni tipo di redenzione: affamati o sazi, aggrappati a beni materiali su cui hanno costruito la loro finta felicità, l’autrice li dipinge con pennellate graffianti, senza pietà e senza simpatia. Alla base di tutta la storia umana c’è avidità e sete di profitto, apatia e visione ristretta della realtà. Chi ce la fa è colui che volge a proprio vantaggio la situazione sfavorevole, il furbo, il cinico, il maneggione. “Ecco perché i romanzi di questa autrice sono magistrali racconti dell’orrore, claustrofobici incubi a occhi aperti come se la storia – passata, presente, futura – fosse un cumulo di macerie e gli esseri umani un branco famelico di cani o di lupi pronti a sbranarsi tra loro” (dalla prefazione di Maria Nadotti, all’edizione di Suite Francese di Newton Compton Editori).

Il libro concepito dalla Némirovsky, voleva in origine essere composto di 5 parti e doveva intitolarsi Tempesta o Tempeste. Di queste cinque parti l’autrice riuscì a finire, prima della deportazione, solo Temporale di Giugno e Dolce. Suite francese è dunque un’opera interrotta, ma tutt’altro che incompiuta. Nel primo libro è narrato il vero e proprio esodo dei Parigini verso la campagna a causa dell’occupazione nazista imminente. L’autrice mette in movimento varia umanità, un numero incredibile di personaggi si affollano, scappano, si rifugiano nelle campagne della Francia, tutti cercano di raggiungere una indefinita salvezza portando con sé ciò che hanno di più caro al mondo, rappresentato da qui beni materiali che non hanno il coraggio di lasciarsi dietro, ma che tuttavia sono destinati a perdere. In Dolce questa atmosfera centrifuga si placa e la guerra acquisisce un aspetto locale in cui il nemico non è solo rappresentato dal soldato tedesco. La Némirovsky crea un palcoscenico in cui tutti sono contro tutti, in un gioco in cui mors tua vita mea sembra l’unica regola vigente.

Un romanzo corale in cui la descrizione dei luoghi ha una parte importantissima e a volte può sviare il lettore che si perde in quei paesaggi di una Francia rurale, che fanno da sfondo costantemente alle vicende narrate.

Duro e struggente… da leggere

 

 

 

Il dolce di Pasqua: la Pastiera napoletana

Siamo a Pasqua? Allora recuperiamo qualche antica tradizione pasquale. Essendo italiani, la migliore tradizione che possiamo recuperare è quella culinaria, che ci assicura una forte identità in tutto il mondo.

Ecco perché oggi vi voglio dare la ricetta della Pastiera napoletana. Già proprio quella che fino a quando mi trovavo a casa producevo a vagonate con la mia mamma. Ricordo infatti che la settimana prima della Pasqua BISOGNAVA “fare la pastiera” e parenti e amici l’aspettavano con ansia, tutta bella impacchettata nella carta trasparente con qualche ovetto di cioccolata insieme al fiocco giallo!

La Pastiera è un dolce tipico partenopeo e come tutte le leccornie tipiche ha una storia antica ed intrigante.

La più antica parente della Pastiera moderna forse fu una focaccia rituale dell’epoca di Costantino che richiama l’offerta che i catecumeni  facevano nella notte di Pasqua portando in processione latte e miele dopo essere stati battezzati.

L’attuale ricetta nacque probabilmente in convento. E pare che le suore del Convento di San Gregorio Armeno fossero vere e propri maestre nel confezionamento del dolce. Frutto della simbologia pasquale della Resurrezione la Pastiera raccoglie in se elementi con un profondo significato religioso: la ricotta bianca simbolo di purezza, i germogli di grano simbolo della rinascita dopo l’inverno, le uova anch’esse simbolo di nuova vita, profumi e spezie naturalmente dall’Asia.

La tradizione vuole che la Pastiera sia confezionata nella settimana che precede la Pasqua, al massimo entro il Giovedì Santo e guai a mangiarla prima della Domenica di Pasqua, infatti gli ingredienti e i loro profumi non sarebbero pronti… cioè i loro aromi non avrebbero ancora sprigionato il meglio di sé e contribuito a rendere questo dolce l’armonia di sapori che molti conoscono.

Naturalmente il giorno di Pasqua la Pastiera si deve mangiare direttamente dal tradizionale “ruoto” (io e la mia mamma avevamo adottato le teglie di alluminio usa e getta) perché la pastiera è un dolce delicato sotto tutti gli aspetti: richiede rispetto non può essere tolta dal recipiente in cui è stata cotta si rischia di spappolarla irrimediabilmente.

La ricetta in realtà è abbastanza semplice, sebbene un po’ lunga, la difficoltà vera è quella di reperire il GRANO COTTO, quell’ingrediente che rende questo dolce unico e irripetibile (quando si morde la crema di ricotta e i denti incontrano la delicata resistenza dei chicchi di grano, infatti, alcuni affermano di aver sentito musica celestiale!), che in realtà si può anche fare da soli ma che normalmente si trova in vasetti da 400/500 grammi (ormai grazie ad Internet immagino che si possa trovare ovunque).

Essendo praticamente una crostata è necessario prima di tutto confezionare il guscio che accoglierà la crema di ricotta e grano e fare una bella e morbida pasta frolla (ognuno ha la propria ricetta, con più o meno zucchero, con un cucchiaino di lievito oppure no insomma sbizzarritevi). una volta finito di impastare prendete la palla di pasta frolla e lasciatela riposare.

Ora se intanto avete trovato il grano cotto munitevi di

400 g di ricotta fresca (sarebbe meglio quella di pecora, saporita e asciutta, ma accontentavi di quello che trovate)

400 g di zucchero

400 g di grano cotto

6 uova

aroma fior d’arancio in gocce

buccia di un limone

50 g. di canditi misti (ma se li soffrite non metteteli!)

un pizzico di sale

un bicchiere di latte

E ora si inizia.

Innanzitutto aprite il vasetto di grano e mettetelo in un pentolino con il bicchiere di latte la scorza di limone e i fiori di arancio (questa è una variante di famiglia, ma fidatevi!). Lasciate scaldare dolcemente il tutto. Setacciate intanto la ricotta (setacciate non schiacciate perché in questo modo diventa una vera e propria crema). Dividete i rossi dai bianche delle uova. Montate lo zucchero con il rosso delle uova finché si gonfi di aria e diventi bianco (che fatica! se avete delle fruste elettriche usatele!). Unite ricotta, rossi delle uova montati con lo zucchero e i bianchi montati a neve ferma. A questo punto, dopo aver atteso il raffreddamento del grano, incorporatelo nell’impasto di ricotta. Aggiungete (se vi piacciono) i canditi (io non i metto perché figli e marito non li amano). Niente paura se il composto risulterà un po’ liquido (ma non troppo). Si solidificherà in forno.

Versate tutto nel guscio di pasta frolla che avrete tirato a circa mezzo centimetro e posizionato il una teglia tradizionalmente rotonda (ma non importa la forma) nella quale cuocerete la Pastiera. Decorate la superficie della Pastiera come fareste con una crostata, incrociando le strisce di pasta frolla che vi è avanzata. Mettete poi il dolce in forno preriscaldato a 180° per un’ora.

Una volta cotta aspettate che sia fredda e spolverizzatela con abbondante zucchero al velo… e mi raccomando mangiatela non prima di Pasqua.

Tanti auguri!