Team ROA, il nostro cuore batte per voi!

APTOPIX Brazil Olympic Refugees Photo Gallery
People Misenga, judoka, fuggito dalla Repubblica Democratica del Congo, attualmente residente in una favela di Rio de Janeiro. Qui con il figlio Elias (AP Photo/Felipe Dana)

People Misenga, judoka, fuggito dalla Repubblica Democratica del Congo, attualmente residente in una favela di Rio de Janeiro; Jolande Bukasa, judoka, Repubblica Democratica del Congo, residente in Brasile dal 2013; Yusra Mardini, 18 anni, nuotatrice, Siriana di Damasco, oggi rifugiata in Germania a Berlino; Rami Anis, nuotatore, Siriano, attualmente in Belgio;  Yiech Pur Biel, campione di corsa sugli 800 metri, sudanese rifugiato in Kenya; James Nyang Chiengjiek, campione di corsa sui 400 metri, sudanese rifugiato in Kenya; Anjelina Nadai Lohalith, campionessa di corsa sui 1500 metri, non vede e non parla con i suoi genitori da quando è fuggita dal Sudan all’età di 5 anni; Rose Nathike Lokonyen, campionessa di corsa sugli 800 metri, sudanese; Paulo Amotun Lokoro, campione di corsa sui 1500 metri, sudanese vive in un campo profughi in Kenya; Yonas Kinde, maratoneta, Etiopia, vive in Lussemburgo.

Questi i nomi degli atleti che compongono il Team ROA, Refugee Olympic Athletes, che parteciperà ai prossimi giochi olimpici del Brasile. Una notizia che può essere sfuggita (come lo era a me) ma che vuole essere un messaggio di speranza e di incoraggiamento. Atleti con alle spalle storie terribili (famosa è divenuta quella di Yusra Mardini, che ha nuotato per tre ore nel Mare Egeo trainando il gommone in panne sul quale lei e la famiglia fuggivano dalla guerra e quella di James Nyang Chiengjiek, scappato a 13 anni dal Sud Sudan per non finire in mano ai ribelli, che reclutavano forzatamente bambini soldato) che hanno nuotato, corso, combattuto per sfuggire all’orrore della guerra. Il Team, parteciperà ai giochi ed entrerà nell’arena il giorno dell’apertura delle Olimpiadi ancora prima degli atleti della nazione ospitante. Sfilerà sotto la bandiera del CIO, e il suo inno sarà quello del Comitato olimpico internazionale. Atleti che hanno già vinto la loro sfida e che aldilà di tutte le retoriche parteciperanno alle olimpiadi per rendere omaggio al coraggio e alla perseveranza che tutti i rifugiati dimostrano nel superare le avversità per costruire un mondo e un futuro migliore.

 

Imperi

imgres

Cosa è Monumenta? Per gli artisti una sfida, per il pubblico un appuntamento con lo stupore. Si tiene  a Parigi ogni due anni al Grand Palais.

Monumenta è stata definita la Kermesse di Parigi: nello spazio di 13.500 metri quadri del Grand Palais, ogni due anni viene invitato un’artista a realizzare una grande installazione che si sappia confrontare con quell’architettura imponente.

 imgres-1

Quest’anno l’invito è stato rivolto a un’artista cinese che vive ormai da più di trent’anni in Francia, Huang Yong Ping. Ora, immaginatevi di entrare nella grande sala: vi troverete sulla testa un grande scheletro di serpente, un animale fantastico forse preistorico che incombe su di voi e che vi gira attorno; poi noterete un paesaggio di otto colline, fatte con 305  container, che evocano le alture cinesi ritratte da tanti pittori perché ritenuta, dalla tradizione di quel paese, simboli di pace e fonte di spiritualità. Il serpente si aggira tra questi container, ha la bocca aperta e sembra voglia mordersi la coda, ma allo stesso tempo guarda verso il centro, minaccioso. Al centro, sospeso sopra dei container, il “bicorne” ossia il grande cappello simbolo di Napoleone. L’opera si intitola “Empires” . Sembra un omaggio alla lotta per la supremazia sul mondo: l’impero di Napoleone ieri, l’impero del commercio oggi, con il suo continuo desiderio di espansione.imgres-2

I container rappresentano proprio il commercio: siamo nell’era della globalizzazione ed è lui  la potenza dinanzi a cui tutti noi siamo invitati a piegarci. Se non volessimo farlo sarà il serpente minaccioso che aleggia sulle nostre teste a imporcelo. E’ piaciuta a Huang Yong Ping la lettura che Pascal Lamy (ex direttore dell’OMC) ha dato al lavoro, sottolineando come i containers sono il simbolo della geoeconomia e il bicorno di Napoleone il simbolo della geopolitica. Ma poi ha anche voluto sottolineare come tutti questi elementi si possono leggere in tanti altri modi  “Ciò che conta, è aver modificato lo spazio del Grand Palais-dice l’artista-i containers. infatti  hanno trasformato la navata in una zona portuale”.

L’installazione rimarrà fino al 18 giugno.

Non v’è bellezza, se non nella lotta: cento anni dalla morte di Umberto Boccioni

imgres
La strada entra nella casa, 1911

Quando Enrico Crispolti professore di storia dell’arte contemporanea all’Università di Siena esperto di Futurismo parlava di Umberto Boccioni, ci faceva notare che la sua morte prematura nel 1916, al fronte come volontario nella prima guerra mondiale, ci rendeva impossibile capire come si sarebbe trasformata la sua arte dopo aver vissuto la drammaticità della guerra. In guerra Boccioni ci andò come futurista convinto ,ma sul campo, ebbe una forte crisi che lo aveva cambiato.

A cento anni dalla morte di Umberto Boccioni  Milano ha organizzato  una grande mostra a Palazzo Reale che rimarrà aperta fino al 10 luglio.

Nella sua biografia si ricordano le sue origini romagnole l’inizio dei suoi studi tecnici,  la sua permanenza a Roma nel 1989  con  Severini, nell’atelier Balla  dove si dedicò allo studio della pittura seguendo le ricerche divisioniste. Quando si trasferisce a Milano subisce l’ impatto con l’arte di carattere sociale e denuncia. Mario De Micheli l’ha definisce “verismo sociale” .

imgres-2
Umberto Boccioni, Materia, 1912

E poi finalmente il futurismo che lui abbraccia fin dal primo momento quando nel 1909, viene scritto da Marinetti il primo manifesto che  nasce “come antitesi violenta sia verso l’arte ufficiale che verso il verismo umanitaristico: nasce con l’aspirazione verso la modernità”. E Umberto Boccioni ne fa parte da subito e indirizza la sua arte verso il nuovo che avanza: i tempi dell’era industriale e della velocità.

Compagni-scrivono nel Manifesto di pittori futuristi (1910)-noi dichiariamo che il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell’umanità mutamenti tanto profondi da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro“.

Questo lo si vede bene nel dipinto di Boccioni, Città che sale del 1911. Il soggetto ha sempre un carattere  sociale: operai, muratori ma ormai l’ispirazione è cambiata, la costruzione della nuova città indica la costruzione dell’avvenire.

images-1
Umberto Boccioni , La città che sale, 1910-11

Sempre nel 1911 Boccioni si reca a Parigi dove può entrare in contatto con l’avanguardia francese in particolare con il cubismo. Il suo interesse si allarga  anche alla scultura e tramite essa l’espansione delle forme nello spazio esprimendo il concetto di line-forza e di  manifestazione dinamica della forma.

I suoi studi per gli oggetti nello spazio e le influenze dei volumi nell’ambiente sono un’anticipazione di tanta arte futura, in fondo le sue sculture sono l’origine delle installazioni di tanti artisti che verranno dopo i lui.

Boccioni è una delle glorie dell’arte italiana; a Milano sono 280 opere: è un’occasione per comprendere  come “L’importanza di Boccioni e del primo futurismo-Scrive Mario De Micheli- sta nel rinnovamento , della sensibilità di fronte alla realtà contemporanea”.

Russolo,_Carrà,_Marinetti,_Boccioni_and_Severini_in_front_of_Le_Figaro,_Paris,_9_February_1912
Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni e Severini a Parigi, 1912

Possiamo aggiungere che portò l’Italia al passo, se non ad esserne capofila, con l’arte internazionale.

La sala di lettura

Roberto Barni
Roberto Barni

Irène Némirovsky, Suite francese

È appena uscito nelle sale cinematografiche Suite francese, tratto dal magistrale romanzo di Irène Némirovsky che porta lo stesso nome. Una strana operazione che, sebbene abbia forzatamente incentrato l’intera pellicola solo su una delle tante vicende narrate nel libro, ha avuto l’indubbio valore di riportare alla memoria del pubblico un’opera letteraria di incredibile pregio, nata da una penna tormentata. In effetti quella della Némirovsky è una storia unica nella sua tragicità.

Figlia di genitori benestanti, di origine ebraica, l’autrice ha attraversato non solo l’intera Europa per sfuggire alle devastazioni della guerra, ma soprattutto un’intera epoca di cui ha saputo riportare il clima di orrore e violenza. Nata a Kiev nel 1903, nel 1913 si trasferisce a San Pietroburgo e nel ’18 sfugge alla Rivoluzione Russa passando per la Finlandia, Stoccolma e infine la Francia, che diventa patria di adozione. A Parigi scrive e crea storie su un’umanità spezzata dal dolore e dalla insensatezza della guerra, storie di personaggi che come lei hanno lasciato tutto dietro di sé per ricominciare e ricominciare da capo ogni volta. Il suo bisogno di scrivere nasce da un confronto rabbioso contro il “destino femminile”, contro quel ruolo preconfezionato, assegnato nei secoli alle donne: madri, sorelle, amiche amanti. Ed è in Francia che andrà incontro al suo destino, che nonostante la sua chiara visione della vita, non seppe prevedere per sé e per tanti altri come lei. Il 13 luglio del 1942 infatti, sotto il governo di Vichy, Irène viene arrestata perché di origine ebraica, strappata all’affetto delle sue due figlie (che conserveranno nel cuore per sempre il ricordo della mamma tanto da custodirne gli scritti e fare in modo che fossero pubblicati), deportata ad Auschwitz dove morirà il 17 agosto dello stesso anno.

suite franceseI personaggi di Irène Némirovsky sono privi di cielo e di orizzonte, lontani da ogni tipo di redenzione: affamati o sazi, aggrappati a beni materiali su cui hanno costruito la loro finta felicità, l’autrice li dipinge con pennellate graffianti, senza pietà e senza simpatia. Alla base di tutta la storia umana c’è avidità e sete di profitto, apatia e visione ristretta della realtà. Chi ce la fa è colui che volge a proprio vantaggio la situazione sfavorevole, il furbo, il cinico, il maneggione. “Ecco perché i romanzi di questa autrice sono magistrali racconti dell’orrore, claustrofobici incubi a occhi aperti come se la storia – passata, presente, futura – fosse un cumulo di macerie e gli esseri umani un branco famelico di cani o di lupi pronti a sbranarsi tra loro” (dalla prefazione di Maria Nadotti, all’edizione di Suite Francese di Newton Compton Editori).

Il libro concepito dalla Némirovsky, voleva in origine essere composto di 5 parti e doveva intitolarsi Tempesta o Tempeste. Di queste cinque parti l’autrice riuscì a finire, prima della deportazione, solo Temporale di Giugno e Dolce. Suite francese è dunque un’opera interrotta, ma tutt’altro che incompiuta. Nel primo libro è narrato il vero e proprio esodo dei Parigini verso la campagna a causa dell’occupazione nazista imminente. L’autrice mette in movimento varia umanità, un numero incredibile di personaggi si affollano, scappano, si rifugiano nelle campagne della Francia, tutti cercano di raggiungere una indefinita salvezza portando con sé ciò che hanno di più caro al mondo, rappresentato da qui beni materiali che non hanno il coraggio di lasciarsi dietro, ma che tuttavia sono destinati a perdere. In Dolce questa atmosfera centrifuga si placa e la guerra acquisisce un aspetto locale in cui il nemico non è solo rappresentato dal soldato tedesco. La Némirovsky crea un palcoscenico in cui tutti sono contro tutti, in un gioco in cui mors tua vita mea sembra l’unica regola vigente.

Un romanzo corale in cui la descrizione dei luoghi ha una parte importantissima e a volte può sviare il lettore che si perde in quei paesaggi di una Francia rurale, che fanno da sfondo costantemente alle vicende narrate.

Duro e struggente… da leggere

 

 

 

La riapertura del Museo di Picasso a Parigi

images
Pablo Picasso, ritratto di Paulo in costume da Arlecchino, 1924

Si è riaperto da poco il Museo di Picasso a Parigi. Un’occasione da non perdere per chi ancora non lo conosce, ma anche per chi aveva l’abitudine di visitarlo prima che venisse chiuso per i lunghi restauri. Il museo, che ha sede nel Palazzo Salè (XVII secolo), nel quartiere Marais, ora è più grande di prima. Però l’impressione che ho avuto, visitandolo, è che non fosse cambiato poi molto da come lo ricordavo. Grazie al cielo, e non poteva essere altrimenti, si possono ancora ammirare le luci bellissime e le sedie di Diego Giacometti, fratello designer di Alberto Giacometti. E poi, ovviamente, c’è Picasso con tutto il suo mondo. Una volta entrati nelle sale, le sue opere vi avvolgeranno. Picasso è stato un artista per tutta la vita figurativo, esplorando però ai limiti del possibile tutto ciò che si potesse fare con la pittura e con la scultura.

Pablo Picasso,
Pablo Picasso,Natura morta con sedia impagliata, 1912

Ha attraversato tutte le fasi dell’arte in un percorso personale intenso e lungo una intera vita: nel museo troverete le sue prime esperienze pittoriche spagnole, la scoperta del colore nei primi viaggi a Parigi, il contatto con Braque, il cubismo, il suo passaggio in Italia e poi il surrealismo, la scultura fatta con tutto e poi le opere di ceramica. Vi troverete opere di arte africana da lui collezionate e alcuni studi per Les demoiselles d’Avignon, una delle sue opere più celebre del 1907. Vi sono i ritratti e le sue fotografie, così come i quadri della serie dei baci, fatti con bocche popolate da denti affilati. Troverete anche quadri della sua collezione: Cézanne, Degas, Seurat, Rousseau il Doganiere, Modigliani.

Pablo Picasso, Il bacio,
Pablo Picasso, Il bacio, 1969

In questo museo incontrerete, insomma, tutta la vita di Picasso, e su richiesta è possibile anche consultare una biblioteca specilizzata sull’artista. Insomma, un vero gioiello per la Francia che ebbe l’intelligenza di permettere agli eredi di Picasso di pagare le tasse di successione con le opere d’arte, in modo da realizzazione di questa raccolta pubblica.

La riapertura è stata un gran segno positivo e, senza guardare alle polemiche sui tempi della burocrazia e sui costi, vorrei segnalare un lato che ho trovato nonostante tutto carente: mi riferisco all’aspetto più museografico. Dovrebbe infatti essere migliorata l’accoglienza al visitaotre. Sarebbe, ad esempio, assai utili migliori e più frequenti pannelli esplicativi, per meglio seguire le diverse fasi del lavoro di Picasso, per sapere chi fossero i personaggi principali del suo lavoro, oppurecome costruì la sua collezione personale. Emblematica è la sedia tratta da uno dei suoi studi, posta in mostra con i penneli e i colori dell’artista, sicuramnte per incuriosire il visitatore, ma senza una vera spiegazione che aiuti a collocarla nella storia dell’artista stesso, rendendola così pienamente parte del percorso espositivo. E’ certamente vero che le audioguide nel museo non mancano, ma una visita senza di esse è priva di ogni sostegno alla lettura dell’artista.

Comunque ciò che conta è che le opere ci sono. Spero che un allestimento espositivo migliore sia solo questione di tempo. La vista vale assolutamente la pena.

Una meraviglia: Monumenta

 

Emilia e Il kabavov
Emilia Ilya KAbakov

Ogni anno a Parigi si svolge un appuntamento che ha qualcosa di simile alla ricerca del meraviglioso. Si chiama Monumenta e si tiene presso il Grand Palais.

Monumenta non è una semplice mostra d’arte contemporanea, ma è un vero e proprio evento (temine a volte un po’ abusato, lo riconosco), un avvenimento. Per ogni edizione viene data, a un artista, la possibilità di realizzare una singola enorme installazione per i grandi spazi vetrati del Grand Palais: ne scaturiscono di solito opere a carattere quasi monumentale. Siamo alla sesta edizione di Monumenta e ancora abbiamo negli occhi e nel cuore le emozioni vissute con gli artisti ospitati nel passato: Daniel Buren, Anish Kapoor, Christian Boltanski e Richard Anselm Kiefer, per citare coloro che ci hanno maggiormente entusiasmati.
monumenta

Quest’anno è la volta di una coppia di artisti, Emilia e Ilya Kabakov, che per l’occasione hanno realizzato l’installazione intitolata L’étrange cité. Si tratta di un villaggio strutturato in sette stanze/spazi che fanno riflettere su modelli di città ideale. L’opera porta con sé una forma di speranza per un mondo liberato, dove l’arte e la metafisica sono libere di incontrarsi con l’umanità. I due artisti sono interessati alle installazioni totali; mondi dentro ad altri mondi, come spiegano bene le parole di Ilya “trovandosi all’interno di questi spazi, ci si trovava dentro uno spazio diverso in un paese diverso, su un pianeta completamente diverso”.

Ilya Kabakov ha ottanta anni ed Emilia ne ha sessantotto. Sono ambedue nati in Unione Sovietica e sono considerati tra i maggiori artisti concettuali russi. Insieme hanno costruito centinaia di installazioni per musei e spazi pubblici. Interessati alle installazioni totali dal 1992, firmano i lavori assieme e nel 1993 vengono scelti come rappresentanti del padiglione russo alla Biennale di Venezia.

Come tutte le cose incredibili e spettacolari, questa installazione dura poco. Chi la volesse visitare deve correre, perché il 22 giugno scomparirà.

 

Ghost signs, una finestra sul passato

Twinings teaUn tempo, quando non si era ancora capaci di produrre a stampa cartelloni pubblicitari di grande formato e l’era digitale era ancora molto molto lontana, coloro che si volevano fare pubblicità, o che semplicemente volevano mettere in risalto in modo diverso la propria attività attraverso un’insegna accattivante, chiamavano degli specialisti del settore, i cosiddetti “walldogs”, che con maestria e inventiva dipingevano su grandi superfici, di solito muri in mattoni di palazzi, fabbriche o negozi, il messaggio che si voleva trasmettere.

I walldogs, termine decisamente dispregiativo, erano così chiamati perché lavoravano davvero come cani, cioè in condizioni spesso insostenibili e pericolose, abbarbicati alle facciate degli edifici in costruzione, penzolando da corde di fortuna.

La loro epoca d’oro furono gli anni fra la fine dell’800 e l’inizio del 900, durante i quali i walldogs produssero una serie impressionante di cartelloni pubblicitari nelle maggiori città del mondo soprattutto negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Francia.

coca cola 2

Di questi murales ante litteram rimangono spesso solo vestigia, i “ghost signs”, cioè quei disegni fantasma che ancora si intravedono sbiaditi e malconci in alcune città famose da San Francisco a New York, da Londra a Parigi. Le vernici che venivano usate erano ricche di piombo, cosa che ha aiutato la loro conservazioni negli anni, alcuni di essi hanno conservato solo pochi dei tratti primitivi in quanto al cambio del proprietario dell’immobile poteva capitare che anche la pubblicità nel murales cambiasse.

A partire dal 1990 si è creato attorno a questi cartelloni pubblicitari un grande interesse, tanto che non solo è nato un nuovo movimento che ne copia lo stile e i colori, ma addirittura è stato creato un archivio digitale che conserva la foto di più di 800 esempi di questa che può essere definita una vera e propria arte, in quanto la diversità delle forme scritte e delle illustrazioni evidenzia l’abilità e il talento che ogni signwriter apportava al proprio lavoro, in palese contrasto con gli attuali manifesti tirati in migliaia di copie.

Ho un ricordo molto sbiadito di quando ero bambina. In effetti ricordo un disegno pubblicitario, perché mi faceva abbastanza paura. Si trattava di un viso di bambino dipinto fuori dalla latteria, reclamizzava lo yogurt Yomo, ma non sono del tutto sicura che questo piccolo murales sia esistito davvero o se piuttosto sto facendo delle sovrapposizioni di diversi ricordi. Per il resto in Italia, di questo tipo di cose, pare abbiano resistito solo e ancora le tristi scritte del “duce”.

L’arte è una forma di lusso?

Thomas Struth, Art Institute of Chicago II
Thomas Struth, Art Institute of Chicago II

I musei sono spesso fonte di polemica. Il numero troppo basso di visitatori, sempre commisurato a costi ritenuti eccessivi, è un ragionamento sentito migliaia di volte. Questa volta però la polemica viene dalla Francia, o meglio dal Centre Pompidou di Metz, creato tra 2007 e 2009 ad opera degli architetti Shigheru Ban e Jean de Gastin. Il museo è nato come luogo d’incontro tra la cultura francese e la dimensione della creatività. Si basa sullo spirito del Centre Pompidou di Parigi e ha una sua programmazione indipendente e multidisciplinare, che talvolta si appoggiata anche alle collezioni del fratello maggiore di Parigi.

Centre Pompidou, Metz
Centre Pompidou, Metz

Nel Centro ci  sono, oltre alle sale espositive, un auditorium e un caffè. E’ circondato da giardini. L’architetto Shigheru Ban è un ricercatore, un innovatore, famoso per aver inventato “le case di cartone” . Il museo è costruito interamente in legno coperto con fibra di vetro; il concetto è quello di uno spazio espositivo che possa essere il più modulare ed elastico possibile e che concili l’ambiente esterno con gli spazi interni,  in “un rapporto sensoriale immediato con l’ambiente”.

web-pompidou-metz_1917_22052012_040_0
Pablo Picasso, Rideau de scene du Parade, 1917

Il Centro è nei pressi della stazione in modo da facilitarne la visita. Risultato: viene poco frequentato (i visitatori si sono dimezzati in tre anni)  e la sua sopravvivenza è a rischio, tanto che il ministro della cultura francese è corso ai ripari annunciando che verranno trasferite a Metz una serie di opere capolavoro dal Pompidou di Parigi ( come le scene realizzate da Picasso per il balletto Mercure, del 1917, oppure alcune opere di Mirò e Dan Flavin). Le opere parigine rimarranno in deposito per un paio di anni. Inoltre è stato assegnato un nuovo finanziamento al Centro di Metz, per 500.000 Euro.

Dunque, la lezione che sembra scaturirne è che per avere visitatori nei musei più periferici occorrono continui rinnovi e soprattutto opere famose che attirino turisti. Mi viene da pensare che questa scelta, quasi forzata, di doversi basare sempre su nomi e opere accattivanti è un po’ come scegliere una borsa firmata. Ma, si sa, il lusso costa caro e va alimentato con  molta pubblicità e giusta comunicazione.

Sylvie Fleury
Sylvie Fleury

Solo così orde di persone si accalcano per vedere una mostra nata, non da una ricerca o dal desiderio di aggiungere qualcosa alla conoscenza, ma solo per lo  scopo di essere un richiamo civetta, un evento da non perdere. Non possiamo fare a meno di domandarci quanto ripaghi in termini di cultura vera questo continuo spostamento di opere per attirare visitatori. Spostamento che crea anche usura nelle opere stesse. Ricordo una professoressa molto snob della facoltà di storia dell’arte dell’Università Firenze che, venti ani fa, aveva l’orrore dei primi  quadri pubblicizzati, per le mostre, sulle fiancate degli autobus e inferocita ci incitava a boicottarle.

Le Louvre, autrement…

paris louvreNick Glass, giornalista e corrispondente da Parigi per la CNN, ha potuto incontrare e intervistare il nuovo direttore del museo più famoso del mondo: il Louvre, che oltre a dovere la sua notorietà all’oggettiva ricchezza e bellezza del suo patrimonio, nell’ultimo decennio ha accresciuto la sua fama (come se ce ne fosse stato bisogno) grazie anche al (discutibile) successo planetario del Codice da Vinci di Dan Brown.

È apparso sulla scena il nuovo direttore del Louvre, il 49enne Jean-Luc Martin, insediatosi nell’aprile scorso, il quale pur giungendo da una famiglia assolutamente nella media, con grande umiltà e dopo grande fatica e studio è giunto alla testa di un’istituzione unica nel mondo. Il giornalista ci rivela che per comprendere i bisogni delle centinaia di migliaia di visitatori che invadono le sale di questo imponente palazzo (visitato ogni anno da 9,7 milioni di turisti), egli ha voluto, come prima cosa, compiere una visita da comune cittadino, convinto che la peggiore trappola per un professionista dell’arte è proprio la sua professionalità che inevitabilmente lo spinge a vedere la realtà solo da un certo punto di vista, lasciandolo cieco e sordo ai bisogni del pubblico. Questa esperienza, che lo ha portato a dover subire tre ore di fila prima di raggiungere le biglietterie e l’ingresso, lo ha spinto ad una profonda riflessione sulla necessità non tanto di incrementare i numeri (quelli sono esorbitanti e comunque in continua crescita), quanto piuttosto di migliorare l’esperienza del visitatore. La visione di Martin è quella di un museo in cui ognuno possa trovare il proprio spazio, che non sia un luogo per le sole elites in grado di comprendere e apprezzare le opere d’arte. Un museo con meno code, più servizi, più accoglienza in cui il visitatore possa veramente fare un’esperienza culturale e sensoriale unica. Sebbene la maggior parte del pubblico si trovi nelle sale del Louvre per ammirare i capolavori eterni come la Monna Lisa, la Venere di Milo o la Vittoria Alata di Samotracia, l’imperativo deve essere la valorizzazione anche delle altre collezioni del Museo, di quel patrimonio nascosto alla vista che conta oltre 430.000 opere gelosamente conservate nei sotterranei del complesso.

Martin si spende senza posa, nella scia dei suoi predecessori, per promuovere il « brand Louvre », non solo in patria, ma anche all’estero. È recente l’apertura di una sorta di succursale del Louvre a Lens, nel cuore di quel territorio detto Bassin Minier francese, che la presenza del museo reinventa e riqualifica.

Il museo sarà presente anche laddove c’è « fame » e denaro per accogliere le opere del Louvre. Infatti nel 2015 è prevista un’altra nuova apertura con 300 opere da Parigi, questa volta ad Abu Dahbi, negli Emirati Arabi Uniti, i quali hanno pagato per il nome Louvre la bellezza di 400 milioni di euro.

Riuscirà il nostro eroe a portare cultura e bellezza in ogni casa del pianeta? Saremmo contenti se riuscisse almeno a dimezzare le code chilometriche che durante un breve soggiorno nella capitale francese ci portano a cancellare il Louvre dalla lista dei musei da visitare…

Prove di Natale, n° 1

regalo di NataleNatale si avvicina. Vi farete trovare come al solito impreparati o fate parte di quella stretta cerchia di persone che dopo aver stilato un accurato e impeccabile elenco riesce a comprare tutti i regali, per tutti gli amici e i parenti mesi prima (conosco persone che battono mercatini e negozietti fin dall’inizio dell’estate…)? Cioé fate parte di quella schiera di sciattoni come me, che improvvisano fino alla mattina di Natale, rimediando spesso terribili figuracce, o affrontate il « problema regalo » con perizia scientifica (senza cioé ripetersi o sbagliare taglia, numero, persona ecc ecc)?

Per i secondi è stata redatta una lista delle dodici migliori città nelle quali si può fare shopping natalizio. I parametri di scelta sono stati rigorosi: come muoversi (qualità del trasporto pubblico, accessibilità e disponibilità di taxi, tempi di trasporto e percorrenza); valore (cioè le stagioni di vendita e i prezzi medi); varietà (cioè numero di marche disponibili, gamma delle categorie commerciali, quantità di negozi di lusso, grandi magazzini, boutique, rivenditori vintage e bancarelle); esperienza (parametro basato su bellezza della città, qualità delle vetrine e dei negozi, cordialità e competenza degli impiegati e dello staff, possibilità di alloggio e vitto). Al primo posto naturalmente c’è New York, seguita da Tokyo, Londra, Kuala Lumpur, Parigi, Hong Kong, Buenos Aires, Vienna, Dubai, Madrid, Milano e Seul. In queste città si trova di tutto e di più, i prezzi possono essere scandalosamente alti o pazzescamente bassi, le idee, per essere almeno una volta originali la mattina di Natale, vi assalgono mentre state guardando le vetrine.

Io mi chiedo, c’era davvero bisogno di fare uno studio accurato per arrivare a capire che fare shopping in una megalopoli è più facile che farlo a Busto Garolfo?

Senza cadere nella trappola moralistica sul genuino significato del Natale, reputate che sia davvero necessario il «regalo» di  Natale ? Se credete che la tradizione debba essere rispettata pensate che debba essere «utile» o completamente «inutile e frivolo» ? Basta il pensiero o bisogna andarci giù duri ?

Raccontatemi cosa ne pensate e cercate di riappacificarmi con la tradizione ridondante che faccio fatica  a seguire ed apprezzare…