Voglio votare

1444996435001-jpg-matteo_renzi_vuole_votare_nel_2017__la_prova_nella_legge_di_stabilita

In questi giorni se ne parla molto:  è giusto che gli italiani  all’estero possano votare? 

Si tratta di una questione che fa parlare: in effetti, chi da molto tempo vive fuori dall’Italia, può aver perso quei legami e quella prossimità di vita e di intenti che sono necessari per esercitare pienamente i diritti di partecipazione civile. V’è chi va giù ancora più duro: questi italiani all’estero non pagano le tasse e quindi che vadano al diavolo.

Tutte posizioni legittime, ma superficiali. E io voglio spiegare perché la penso diversamente.

Gli italiani all’estero sono ambasciatori preziosi  del modo di vivere italiano. E oggi, questo modo di vivere non è più pizza e mandolino ma arte, architettura, cibo, moda, arredamento, un una parola: stile. Lo stile italiano, ossia un elemento formidabile di soft power: la capacità di influenzare e attrarre gli altri attraverso la cultura. Un elemento di potere che, in un mondo globalizzato e per un paese votato all’export, vuol dire ricchezza. Non solo: tanti italiani all’estero occupano posizioni rilevanti in aziende, università, organizzazioni internazionali, media. Sono “prodotti” di un’Italia di successo, che danno un’immagine dinamica e internazionale del nostro paese. Levar loro il voto vuol dire privarli dell’appartenenza a una comunità che si riferisce sempre e comunque all’italianità.

Ma non c’è solo questo: gli italiani all’estero mandano soldi a casa, spendono in italia (per ragioni di famiglia o di proprietà), creano opportunità per altri italiani, e tutto questo lo fanno a costo zero perché non pesano sul nostro welfare (ci si cura all’estero) e magari una volta acquisita una buona pensione, dopo una vita di lavoro, la vengono a  spendere in Italia.

Occhio a dire che gli italiani all’estero sono un peso. Io credo che siano una risorsa e che il voto serva a tenerli legati al paese più di quanto non si creda.

italiani bravi nel soft power

copertina Monocle, febbraio 2014
copertina Monocle, febbraio 2014
Da qualche anno la rivista Monocle pubblica una classifica delle città che offrono la migliore qualità di vita. Raramente, se non mai, una città italiana vi è stata menzionata. Eppure Monocle ha appena pubblicato un numero tutto dedicato all’Italia. Come mai, viene da chiedersi? Lo spiega bene l’editoriale della rivista: l’Italia, nonostante un settore pubblico e una classe politica che fanno acqua da tutte le parti, ha la capacità di industriarsi in mille campi, creando uno stile di vita sempre capace di attrarre attenzione dal resto del mondo.
E’ lo stile creato dalla moda, ma anche dai moltissimi artigiani che rendono unici i nostri prodotti. La rivista parla della grande sartoria napoletana, come delle belle cotonerie del nord. Parla di artigiani giapponesi che sono venuto a stabilirsi  in italia per lavorare nel clima di saper fare che pervade certi nostri luoghi. Ma parla anche della nostra meccanica strumentale e di certe nicchie tecnologiche in cui siamo assai bravi. Parla di una realtà operosa e attiva che si fa rispettare nel mondo, nonostante la pochezza spesso dimostrata da chi ci rappresenta. La rivista definisce questa nostra reputazione legata al fare come una forma di “soft power”, un modo di affermarci non grazie ai grandi schemi di potenza nazionale ma grazie alla capacità di imporsi in una qualche dimensione di vita. E dice anche che un bel sostegno a questo soft power lo danno proprio gli italiani all’estero: con la loro bravura e il loro lavoro sono i migliori ambasciatori dello stile italiano.

Lingua madre (o matrigna?)

Lo abbiamo già scritto in un post di qualche tempo fa… ci piace che al Politecnico di Milano la lingua inglese non sarà più solo materia di studio, ma diventerà lingua di insegnamento e apprendimento, questo per fare fronte alla competizione globale, per attirare nuovi studenti dall’estero (soprattutto dal «far east»), per rimanere al passo con i tempi, per essere pronti e capaci di lavorare in un contesto internazionale.

La BBC, in un recentissimo articolo del sito on line, afferma che l’inglese, essendo già la lingua universalmente utilizzata nel mondo degli affari, diventerà una sorta di nuova Koiné anche per l’educazione, la ricerca e lo studio, sottolineando però quanto ciò rappresenti un pericolo per le varie lingue, culture e tradizioni regionali. Tutti noi sappiamo bene quanto questa realtà sia molto più vicina di quanto si possa immaginare (se facciamo attenzione, infatti,  in qualche film di fantascienza di ultima generazione spesso anche gli alieni capiscono e parlano perfettamente l’inglese!) e quanto il pericolo dell’essere fagocitati da una lingua, ma soprattutto da una cultura che non ci appartiene e che sotto alcuni aspetti é lontana da noi mille miglia, sia effettivamente reale.

Nel nostro piccolo, allora, siamo corse ai ripari…

Un’amica, valida, preparata ed entusiasta insegnante di italiano (!) in una scuola internazionale, ci ha chiesto di dare una mano ai suoi studenti suggerendo loro articoli, libri, siti web, che li possano aiutare nella loro ricerca su un aspetto particolare della società o della cultura italiana. Ci ha invitate a parlare con i ragazzi e noi ci siamo sentite onorate non solo di dare una mano concreta, ma soprattutto di avere l’opportunità di far conoscere meglio la nostra cultura e le nostre tradizioni,  facendone apprezzare tutti gli aspetti positivi, di cui siamo fiere. I ragazzi che abbiamo incontrato ci sono sembrati non semplicemente interessati, ma avidi di informazioni e ricchi di domande, segno che l’Italia riesce ancora a stimolare l’interesse di molti!

Sarà necessario sfatare miti (la pizza infatti non può essere considerata «vegetale»), presentare il meglio di noi (visto che il peggio lo potranno tranquillamente leggere sulle news) e il meglio di una storia di secoli, anzi no, di millenni, sulla quale è stata costruita gran parte della tradizione occidentale, senza dimenticare che fino al Rinascimento e oltre siamo stati i più grandi esportatori di cultura e che, fra il XV e il XVII secolo, si parlava italiano in tutte le corti europee.

Ora basta, sono stata sufficientemente nostalgica, ma ritengo necessario che le nuove generazioni, soprattutto quelle «straniere» tecnologiche, inetrnaute, incredibilmente pronte e capaci abbiano la possibilità di fermarsi a capire e ad apprezzare un intero sistema formato da valori, cultura, tradizioni e lingua che é parte di ognuno di noi.

La nostra stessa esperienza di italiani all’estero ci insegna che è possibile conciliare  le due dimensioni: quella della lingua materna (materna non solo perché é quella di cui le nostre madri ci hanno nutriti, insieme al latte, fin da piccolissimi, ma soprattutto perché attraverso di essa abbiamo assimilato un’identità precisa e incancellabile) e quella della lingua acquisita, sempre più spesso l’inglese, che ci nutre in un altro modo, consentendoci di sentirci cittadini del mondo in grado di comunicare, interagire e cercare di comprendere quegli “altri”, che solo attraverso la possibilità di dialogo, non fanno più paura.