Nessun uomo è un’isola

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Il calvario dei migranti e la bellezza della solidarietà passano accanto alla vita di un ragazzino di Lampedusa, che gioca e cerca una propria dimensione, mentre affronta le paure e le sfide della crescita. Accade in un bel film-documentario di Fancesco Rosi, Fuocammare, ove alla vita grama dei pescatori e degli isolani si accosta alla sofferenza, incommensurabile, dei migranti in arrivo dal mare. Due dimensioni di vita si accostano, sembrano lontane anni luce. Ma è la compassione, quella meravigliosa capacità di sentire la sofferenza altrui ed esserne smossi nel profondo, che crea un ponte attraverso il quale storie lontane si incontrano. Così si vedono gli addetti della marina Militare e della guardia costiera italiane, con i tanti volontari che si adoperano senza sosta. E si vedono i cadaveri di tanta povera gente stipati nella stiva di una carretta del mare, si vedono le mamme sfinite coi bambini moribondi al collo, si ode il canto di un gruppo di nigeriani che rivive, esorcizzandole, le peripezie atroci d’un viaggio degno d’una discesa nell’inferno. Si vede una donna piangere un pianto che non si immaginerebbe possibile per un essere umano. E a un certo punto eccolo: Pietro Bartolo, il medico condotto dell’isola. Uomo di mezza età, con gli occhiali, una faccia da persona comune. E’ proprio lui che pronuncia le parole più belle sul perché si devono aiutare queste persone; lo fa in maniera semplice e bellissima, come fanno tutti coloro che dinanzi al male e al dolore scelgono la via dell’umana compassione. Nessun uomo è un isola, disse un famoso poeta, e così questo dottore, isolano di Lampedusa, con le sue parole e il lavoro quotidiano in frontiera, col prendersi su di se’ il peso dell’umanità più derelitta, dalla quale sente di non essere disgiunto, ci sembra grande quanto una pietà michelangiolesca. In quel momento il documentario e’ un film, ossia un opera d’arte.images

Stolto e infelice e’ chi questi sentimenti non li capisce e usa questa tragedia per farsi una carriera politica.

 

 

 

 

 

7 marzo

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Adrian Paci, Centro di parmanenza temporanea

1991, 7 marzo. 25 anni fa: il primo enorme arrivo di migliaia di persone in fuga dalla miseria. Avvenne a Brindisi, come ricorda il Fatto Quotidiano: 25,000 albanesi approdarono sulle nostre coste scendendo da una serie di carrette del mare (5/6.000 alla volta). Lo Stato era impreparato e arrivò con gli aiuti solo alcuni giorni dopo. Mi ricordo benissimo di quei momenti e di quelle immagini in televisione: eravamo sconvolti nel vedere un paese in disfacimento, che si trasferiva in Italia. Mi ricordo anche che era un’altra Italia. C’era ancora la classe di governo della prima Repubblica: gli Andreotti, i Martelli, totalmente impreparati all’emergenza. Perché veniva da un cambiamento mondiale da loro non compreso. Il comunismo finiva e noi di quel paese chiuso per decenni non sapevamo proprio niente.

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Adrian Paci

Ma la gente di Brindisi si attivò per dare da mangiare e ospitalità a chi aveva attraversato il mare. Il sindaco di Brinidisi, Giuseppe Marchionna, come ricorda Il Fatto, fu eccezionale: fece diffondere un messaggio alla radio ogni 15 minuti. Diceva: hanno solo fame e freddo. E si gettò per la strada a gestire l’emergenza. Tanto bastò e un’intera città si dette da fare: chi passava il cibo dalle finestre, chi offriva una stanza a una mamma coi bambini. Col tempo si integrarono nella società italiana, tanti di quegli albanesi. Uno lavora ormai da tanti anni nella fattoria dei miei, dove vive con la sua famiglia.

Oggi siamo impauriti dalle masse di disperati che arrivano da noi. La nostra classe politica è stata di nuovo cieca: hanno visto poco di ciò che accadeva alle nostre porte, sino a che la gente non è partita in massa. La gente è piu impaurita, è vero. Eppure non sono mancati gli esempi di solidarietà, anche nelle istituzioni locali. Il sindaco di Lampedusa, la signora Giusi Nicolini, è uno degli eroi di oggi. Di nuovo: chi ha il compito di gestire lo Stato vede poco lontano, chi si trova sul campo fa la sua parte. Sembra una costante della nostra storia.

Buonismo

imagesChi se lo aspettava che nel nuovo millennio ci saremmo dovuti difendere da un ennesimo comportamento sociale pericoloso, denominato buonismo? Non passa giorno che, ascoltando un dibattito o leggendo un giornale, non si senta il bisogno di scaricare la propria rabbia contro chi pratica questo nuovo atteggiamento deprecabile. Il buonismo, si dice da più parti, ci porterà alla rovina. Faccio un esempio. Ci sono i campi Rom: costano troppo e occorre smantellarli. E invece no: i buonisti fanno ostracismo. Alle mense scolastiche i bambini che non pagano non mangiano! E anche qui ecco che arrivano i buonisti e si oppongono a questa decisione, in modo chiaramente irresponsabile.

Torno indietro nel tempo per vedere da dove arriva questa piaga. Ma non mi ricordo di averlo incontrato prima questo buonismo! Certo, mi ricordo che esistevano delle persone per bene, decise a tutto per il bene della comunità, qualunque essa fosse, anche se doveva essere allargata ad altre culture. Ma allora quando è sorto questo nuovo ISMO?

Fate attenzione. I sintomi di questa nuova disfunzione sociale sono: se ti senti tollerante, ripudi i toni aggressivi e violenti, vorresti che si trovasse un modo per convivere tutti in pace, vorresti che tuo figlio avesse in classe bambini di ogni tipo ed estrazione sociale e culturale, se ti senti sollevato quando viene tratta in salvo una nuova barca di immigrati che cercano di arrivare a Lampedusa, ecco allora sei uno buonista. Uno di quegli scellerati, pericolosi individui che recano danno al proprio paese.

C’è solo una cosa da augurarsi, se hai tutti i sintomi del buonismo, e cioè che tu sappia far parte di una minoranza, standotene il più in silenzio possibile. E lasciare così che il nostro paese sprofondi sereno nella barbarie.

Chiacchiere de lunedì

“Ma vi rendete conto?-scriveva Don Antonio Gallo nel suo libro , Di sana e robusta costituzione (ALiberti ed.p. 110)- per i grandi neocapitalisti ormai c’è la libera circolazione delle merci. E gli esseri umani no?” e continua poi ““nessuno può fermare i migranti: è come un fenomeno sismico, e l’accoglienza da parte dell’Europa è un dovere”.

Gericault, La zattera della Medusa, 1818, Museo Louvre
Théodore Géricault, La zattera della Medusa, 1818, Museo Louvre

Questo lunedì, ancora nel frastuono dei fatti accaduti la scorsa settimana abbiamo deciso di commentare la barca affondata  a Lampedusa con la forza tragica dei naufraghi dipinti da Théodore Gericault  nel famoso dipinto La zattera della Medusa (il dipinto, conservato al Museo del Louvre, rappresenta il naufragio della nave francese Medusa davanti alle coste della Mauritania nel 1816). L’opera ebbe la forza di influenzare così profondamente i pittori contemporanei e oltre, che segnò una svolta nell’arte del XIX secolo e dette il via all’era del romanticismo.

Qual è il filo che ci unisce strettamente a quei poveri corpi stesi sulla banchina di Lampedusa? Noi che “siamo andati via” abbiamo il dovere morale di chiedercelo.

Noi che non siamo scappati da guerre, malattie o carestie ma che abbiamo semplicemente colto al volo un’occasione di maggiore benessere e stabilità. Noi che non abbiamo dovuto rinunciare alle nostre famiglie e, in fondo neppure radicalmente al mondo al quale siamo adusi, alle sue abitudini, alle sue idiosincrasie, è possibile che abbiamo semplicemente avuto fortuna? Nessuna capacità personale, nessuna bravura, semplicemente il trovarsi nella “parte giusta del mondo” ci distingue da questi migranti. Guardando le immagini di quei corpi allineati sulla banchina del porto di Lampedusa non possiamo fare altro che sentire il peso di queste morti e sperare che le parole dei governi non restino tali