Life in the Slum

Ho un figlio che ama guardare il mondo attraverso l’obiettivo della macchina fotografica… Lo guarda con i suoi occhi da adolescente e riesce a catturare aspetti della vita di tutti giorni, della natura, di tutto ciò che lo circonda attingendo al suo ricco mondo interiore, all’entusiasmo della sua età e grazie agli stimoli che, da ragazzo “fortunato” ha ricevuto e riceve quotidianamente. Ha aperto un blog che raccoglie le sue fotografie, possiede un bell’apparecchio fotografico e soprattutto ha la stima e l’approvazione di genitori fieri dei suoi interessi.

Per questa ragione sono rimasta affascinata da un’iniziativa di una onlus italiana che opera a Deep sea, slum di Nairobi, che si chiama AfrikaSi, la quale promuove e coordina programmi di assistenza sanitaria di base, alfabetizzazione e formazione, e con il contributo volontario di artisti professionisti e sponsor organizza eventi di sensibilizzazione e promozione della cultura africana.

Ciò che mi ha colpito, è la mostra inaugurata a Venezia l’11 maggio scorso, che si protrarrà fino a fine luglio, intitolata Life in the slum. Through our eyes, dove viene esposta l’opera di ragazzi dello slum che hanno realizzato fotografie del loro mondo, della loro realtà. A volte tragiche e drammatiche, a volte divertenti o commoventi, esse sono sempre piene di poesia e mostrano la vita nello slum attraverso gli occhi di chi la vive. Sebbene le immagini siano catturate attraverso una fredda lente di vetro, rimangono ricche del colore, dell’umanità, della vita dell’Africa.

Questa raccolta fotografica di 30 scatti, che approderà dopo Venezia in Turchia e infine negli Stati Uniti, è il risultato di una lunga e bella storia iniziata nel 2005 nello slum Deep Sea, una delle più di duecento baraccopoli che circondano la capitale del Kenya, grazie al coinvolgimento di Adriano Castroni, già fotografo di moda per Valentino e creatore dell’agenzia pubblicitaria TheSign.

In Africa Castroni ha creato con AfrikaSi il laboratorio Zinduka (in swahili “evoluzione”) in cui insegna ai ragazzi dello slum fotografia, grafica e sviluppo fotografico. L’obiettivo era di dare a questi ragazzi ancora prima di una professionalità una speranza nel futuro.

Il messaggio che arriva forte e chiaro da questa esperienza è che nonostante tutto anche i ragazzi delle baraccopoli di Nairobi, sebbene fra mille difficoltà hanno una speranza, una piccola possibilità di scelta che ci fa sperare in un futuro diverso almeno per alcuni di loro. Ciò che non hanno avuto per una coincidenza di nascita possono ottenerlo con tanto lavoro, determinazione e l’aiuto di persone come Castroni pronte a dare una mano gratuitamente, alimentando con la loro professionalità e dedizione quella scintilla creativa presente in tutte le nuove generazioni, anche le meno fortunate!

Museo dell’Innocenza, l’anima di Istanbul in 83 teche

Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura 2006 – con la motivazione «che con la sua ricerca dell’anima melanconica della sua città (Istanbul) ha scoperto nuovi simboli per rappresentare lo scontro e il legame fra le diverse culture» – ha inaugurato il 28 aprile scorso il suo Museo dell’Innocenza. Un progetto accarezzato per 15 anni, tanto il tempo necessario alla sua realizzazione, e che finalmente ha visto la luce.

Museo dell’Innocenza è anche il suo ultimo romanzo pubblicato da Einaudi nel 2009 e l’uno e l’altro sono intimamente legati e interconnessi.

Come lo stesso autore ha affermato in un intervista, libro e museo sono stati concepiti assieme. Nel Museo «Ci sono tutti gli oggetti descritti nel testo. Qui i lettori possono venire con il volume in mano, oppure consultarlo su questi banchi in tutte le lingue. So bene che dopo un po’ di tempo ognuno finisce per dimenticare la trama dei libri. Però qui si può ricordare il romanzo. E anche ricostruire la storia della città» (Tratto da Kataweb)

Il museo conta 83 vetrine, tante quanti sono i capitoli del suo romanzo, che narra di una storia d’amore lunga una vita fra Kemal ricco borghese e una sua lontana parente la bella, ma povera Fusun «dalle braccia color del miele», che fa letteralmente perdere la testa al protagonista. Nel museo trovano posto migliaia di oggetti che Pamuk ha trovato in mercatini dell’usato e rigattieri che narrano la storia di un’intera epoca (gli anni in cui nasce e cresce l’amore dei protagonisti). Tutto ciò che non è stato trovato in vendita è stato pazientemente ricostruito grazie all’opera di capaci artigiani.

Ma, viene da chiedersi immediatamente, tutto questo perché ?

L’autore lo spiega candidamente, quella fra i due protagonisti del romanzo/museo non è una semplice storia di amore è la storia di una intera città e di un’intera epoca, un documento su una Istanbul che non esiste più e che continua a vivere nel cuore dello scrittore. Ogni singolo oggetto che fa parte della collezione del museo rappresenta tangibilmente un momento della vita dei protagonisti, che sebbene vivano e agiscano solo sulla carta fanno rivivere atmosfere che senza la presenza visibile e reale di qualcosa che le ricordi sarebbero irrimediabilmente perdute.

L’ambizione di Pamuk è quella di ricreare nel visitatore le sensazioni vissute leggendo il libro una sorta di percorso letterario in cui tutti i sensi vengono coinvolti.

Una sorta di nuova performance artistica o semplicemente la realizzazione delle stravaganze di un letterato?

Credo che chi ha la fortuna di fare un viaggio a Istanbul possa prendersi un attimo di pausa percorrendo le sale di questo museo situato nella città antica, nel quartiere di Cukurcuma per rivivere un’intensa storia d’amore e per imparare ad amare come Pamuk l’anima divisa di una città la cui vocazione occidentale contrasta con la sua anima orientale!