Buono come il pane

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Il modo migliore per chi ritorna in Italia durante le vacanze è quello di trascorrere un po’ di tempo attorno alla tavola, con gli amici più cari e i familiari più stretti.  In queste occasioni spezzare il pane acquista un valore di festa e fratellanza.

E dunque ora che anche queste vacanze sono terminate dedico questa giornata al PANE.

Il pane nella storia occidentale è sempre stato la base dell’alimentazione umana, fin dalle epoche classiche: tanto che oggi ogni cibo che lo accompagna, segnandone la preminenza, è detto companatico, ciò che accompagna il pane. Per Omero gli uomini sono mangiatori di pane, perché l’antico aedo attribuiva a questo semplice cibo la connotazione della civiltà umana. Semplice, ma frutto della cultura dei popoli, dato che richiede elaborazioni  che da civiltà a civiltà sono diverse. Un passo principale, nell’evoluzione dell’ uomo, fu compiuto quando il sapiens scopri la lievitazione  aggiungendo un pezzo di pasta avanzata al nuovo impasto. Ci si accorse che il prodotto diveniva più gonfio, più buono e digeribile. È il passaggio ultimo che veniva da precedenti tappe: le spighe arrostite, le polendine di cereali frantumati, fatte con acqua o latte, le focaccine azzime scaldate al calore delle pietre roventi, infine il pane che aveva subito un processo che il primo uomo vide corrispondente a quello della procreazione e vitalità. Un processo sacrale: ancora le nostre nonne e bisnonne, in campagna ed infornando il pane, tracciavano sulla pagnotta una croce. Perché con il calore si crepasse in modo giusto, ma anche e soprattutto perché era un dono del Dio, nell’ Eucarestia il corpo di Cristo. Rimangono curiose usanze tramandate nei tempi a testimoniare questi intrecci fra sacro e profano: si racconta in certe zone rurali  che le religiossisime donne infornando le pagnotte lievitate e segnate di croce dicevano ritualmente “cresci o pan come il c.. del cappellan”  (Piero Camporesi).

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Il cristianesimo ha sacralizzato il pane e lo ha caricato di simbologie. Sant’Agostino, per esempio, in un suo sermone, paragonò la formazione del pane a quella del perfetto cristiano. Anche quest’ultimo, creato per volontà del Signore, deve essere frantumato dalle avversità della vita, formato con l’aiuto della dottrina e dei ministri, impastato con l’acqua battesimale, cotto nel forno dello Spirito Santo riposto nel granaio sacro della Chiesa. Sul pane sono fiorite e sono state tramandate tante leggende: per dirne una, assai diffusa, le nonne raccontavano ai nipoti che durante la fuga in Egitto Maria e Giuseppe con il Bambino si affrettavano con l’aiuto di un ciuchino verso la salvezza. Ma gli sgherri di Erode erano vicini; la Sacra Famiglia trovò rifugio in una casa colonica e la Madonna nascose Gesù nel forno vuoto. I soldati frugarono ovunque, ed uno volle aprire il forno; ma c’era solo un pane. Certo, diceva a quel punto la nonna: perché il pane è il corpo di Cristo. Allontanato il pericolo il piccolo Gesù fu recuperato.

Questi modelli popolari, appunto tarati fra il sacro ed il profano, spesso indicanti il pane come metafora della vita, si sono trasferiti nei tanti detti e proverbi. Buono come un pezzo di pane, il pane non viene mai a noia, un pezzo di pane è buon sigillo alla stomaco; ma anche non si deve levare ad alcuno il pan di bocca, guadagnarsi il pane con il sudore della fronte, pan di sudore ha gran sapore. Mangia pane e coltello, si diceva di un poveraccio che aveva come cibo la sola pagnotta da affettare.

Proibitissimo sprecare il pane, e si dovevano raccogliere e rimpiegare le briciole che cadevano sulla tavola. Altrimenti – dicevano le nonne nella loro involontaria crudeltà narrativa – quando sei morto un angelo ti porterà a ritrovarle di notte  con un dito acceso.

Per questo articolo si ringrazia il contributo dello storico Alberto Cipriani di cui si ricorda il libro, Mangiare per vivere, 2005, Gli Ori

Chiacchiere del lunedì

Don Gallo se ne è andato. Se ne è parlato molto in questi giorni. Questo uomo, rigoroso e a tratti severo, che aveva fatto il partigiano e il prete e che spesso faceva arrabbiare le gerarchie ecclesiastiche, è da poco entrato in casa mia attraverso un suo libro, regalato da mio fratello a una delle mie figlie, in occasione del suo diciottesimo compleanno. Lo avevamo visto spesso, intervistato in qualche programma televisivo di attualità, ma mai mi ero imbattuta in un suo scritto.

Me lo sono letto e vi ho trovato conferma di tante cose che avevo intuito sul personaggio, rafforzando la mia stima per lui. Ma è soprattutto una sua qualità che mi ha colpito: questa sua passione per la libertà, in primis per la libertà di coscienza, che non lo ha mai allontanato dalla sua chiesa, ma che ne ha fatto una voce assolutamente fuori dal coro nell’ambito dell’ecumene cattolica Italiana, facendolo spesso definire un prete scomodo. Don Gallo ne aveva rispetto assoluto, della libertà di coscienza, fondando questa sua convinzione proprio sull’insegnamento della Chiesa. Citava spesso, e lo fa anche nel suo libro, una frase tratta da uno dei documenti più importanti del Concilio Vaticano II (la Gaudium et Spes), la quale suona così: “l’essere umano può volgersi al bene soltanto nelle libertà”. E don Gallo sempre invitava a esercitare questa libertà, soprattutto nell’ambito della vita comune, cioè della politica intesa in senso più alto: per lui partecipare (anche quando le gerarchie non volevano, perché affette da sciocche miopie politiche di cui un giorno si vergogneranno) era fondamentale. Da questo convincimento derivavano tutte le sue prese di posizione sui temi scottanti del nostro tempo. Ma ne derivava anche il suo rimanere sempre all’interno della Chiesa: era infatti sulla base della dottrina della Chiesa che lui prendeva posizione; se qualcun altro, anche più in alto di lui, lo negava, era costui nell’errore e Don Gallo era lieto di parlarne e di argomentare.

Mi sembra che in questo lui abbia svolto un ruolo analogo a quello di don Lorenzo Milani: ha purificato le coscienza della chiesa e dei cristiani invitandoli a vivere liberamente, coscientemente e responsabilmente il messaggio di Cristo.

Così fece Don Puglisi, che morì assassinato dalla mafia e che è stato beatificato proprio in questi giorni. Un’altra grande testimonianza di vita cristiana e passione civile.

Io come ti vorrei?

Giacomo Manzù
Giacomo Manzù, cardinale seduto, 1954

In questo momento, cari cardinali, mentre vi apprestate a chiudervi nella cappella Sistina, per il conclave, sotto la volta di Michelangelo, penso a come vorrei fosse il nuovo Papa. Voi siete occupati, con i vostri contatti preliminari, nel definire le alleanze, nel pregare per essere pronti al compito. Io mi figuro di parlare con colui che verrà elevato al Soglio di Pietro.

Come ti  vorrei Papa che verrai? Innanzitutto spero che tu possa diventare un guida per tutti i cristiani sparsi nel mondo.  Ti immagino con un volto mite, ma con un carattere forte; vorrei che sul tuo sguardo si potesse leggere la domanda: perché avete paura?

Spero che tu possa trovare le parole giuste per chi non crede né in te né nella chiesa, in modo che tutti  possano sentire da te parole di speranza e coraggio.

Mi piacerebbe sentirti dire che tutte le differenze sono necessarie al disegno di Dio e che non c’è preclusione per nessuno dentro la Chiesa. Se non ci sappiamo mettere noi al servizio degli altri, chi lo dovrebbe fare?

Mi piacerebbe anche che tu sapessi metterti dalla parte delle persone più deboli e meno tutelate. Perché anche la crisi non è uguale per tutti .

E poi amerei che tu non avessi timore di prenderti la responsabilità di tagliare ciò che nella Chiesa proprio non funziona, a rischio di un suo indebolimento, senza aver paura di colpire chi sbaglia e scandalizzare gli ipocriti, proprio come fece Gesù nel Tempio.

Spero che tu sia abituato a rivolgerti agli europei ma anche agli africani, agli asiatici e agli americani, che tanto contribuiscono alla vita della chiesa.

Da qualche anno ormai  frequento un chiesa internazionale di lingua inglese e lì ho scoperto tanta fede. Ne ritengo un esempio l’attaccamento della comunità filippina, il loro desiderio di servizio. Ma vi ho anche scoperto i colori e la gioia della musica sacra africana, assieme al pragmatismo degli americani, che si sentono in prima fila nell’organizzare le attività parrocchiali.

Insomma, caro Papa, ti aspetto con ansia perché, se tu decidi di lottare, allora lottiamo anche noi per un mondo un po’ più giusto e meno ipocrita. La nostra chiesa così potrebbe diventare un luogo dove si annuncia la buona notizia: un luogo dove non si conoscono cinismo e indifferenza.

Il mugnaio, la luce perpetua e le logiche dell’economia

Vi raccontiamo oggi una bizzarra vicenda tutta svizzera, il cui inizio risale a 655 anni fa.

La vicenda si svolge a Mollis, un ridente villaggio del Canton Glarona. Qui nel 1350 un mugnaio, tale Konrad Müller, commise un omicidio. Il colpevole si salvò per il rotto della cuffia facendo voto, a mo’ di espiazione, di alimentare in eterno una luce perpetua che donò alla chiesa locale. Egli impegnò se stesso e i futuri proprietari dei suoi averi, a prendersi cura di questa fiammella votiva e a provvedere ad essa bruciando l’olio proveniente dai suoi noci. Dal 1350 dunque nella chiesa di Mollis arde la luce perpetua a sempiterno ricordo del pentimento del mugnaio assassino…

Oggi le cose sono un po’ cambiate… Innanzitutto di noci non ce ne sono più, inoltre il nuovo proprietario di quello che il fu il fondo di Müller non è assolutamente d’accordo nel versare la somma annua di 70 franchi a compensazione delle spese di manutenzione della luce perpetua nella cappella di Mollis. L’attuale proprietario del luogo in cui erano piantati i noci infatti si rifiuta di sottostare all’imposizione siglata nell’atto notarile risalente al 1350, tanto più che non si tratta affatto dell’espiazione dei suoi peccati!

Per ricomporre il litigio fra proprietario del fondo e chiesa locale il parroco, documenti d’epoca alla mano, ha fatto ricorso presso il tribunale cantonale.

Come andrà a finire questa antica vicenda lo deciderà un moderno tribunale, ma voi cosa avreste fatto? Avreste continuato ad alimentare un’antica tradizione o anche voi, come vorrebbe il nuovo proprietario, avreste spento la luce perpetua in nome di moderne logiche economiche?

A Lugano, sulle vette del monte Tamaro una gita tra arte e natura

Una decina di anni fa ho fatto una gita estiva in Svizzera. Da sempre in mezzo all’arte, andai a visitare un luogo suggestivo che non avrei più dimenticato. Si tratta della chiesa di Santa Maria degli Angeli, sulle pendici del monte Tamaro, vicino a Lugano. Questa chiesa ha veramente qualcosa di straordinario, sia per dove è collocata sia per come è stata concepita dall’architetto svizzero Mario Botta, che qui ha lavorato in piena sintonia con l’artista italiano Enzo Cucchi.

Per arrivare alla chiesa occorre prendere la cabinovia che mena all’Alpe Foppa, a circa 1500 metri di altitudine. La costruzione è stata inaugurata nel 1996  e si nota subito in alto, a picco sul monte. E’ un luogo da non perdere perché è stata pensata staccata dalla montagna, come un belvedere sulla valle. In verità vi si arriva salendo più in alto, sul tetto, e poi scendendo dentro la chiesa stessa. Il tetto, oltre che da scalinata, funge anche da anfiteatro e offre punti di vista magnifici sulle diverse montagne del circondario.

Scese le scale, si entra all’interno della chiesa: di forma  semicircolare, strutturata a tre navate, ha al suo centro una piccola abside, inondata di luce intensa, con due grandi mani disegnate da Cucchi sulle sue pareti.

La chiesa ha 22 aperture poste a livello del pavimento, che consentono di ammirare lo splendido paesaggio della valle sottostante. Nelle strombature dei muri, ha una serie di dipinti incisi da Cucchi attorno al tema di santa Maria degli Angeli.

Un’esperienza unica, la visita di questa chiesa; un modo contemporaneo di trattare il sacro che arriva dritto al cuore e alla mente. Il luogo, poi, è anche molto apprezzato da chi ama camminare sui monti, perciò se  potete trattenervi di più potete fare la traversata Monte Tamaro-Monte Lema(circa 4 ore). Io non l’ho fatta, ma dicono che sia facile ed accessibile a tutti: mi piacerebbe provarla.