L’arte è schiava del mecenatismo?

Takashi Murakami dntro un negozio di Luis Vitton
Takashi Murakami dntro un negozio di Louis Vuitton

Questa riflessione mi è scaturita in seguito a un articolo, comparso domenica scorsa su La Repubblica e scritto da Natalia Aspesi, dal titolo “L’arte è di moda”. Vi si metteva in luce lo stretto rapporto – ormai più che decennale tra arte e mondo della moda. Nell’articolo si ripercorrevano le collezioni e i favolosi contenitori di arte aperti in questi anni dai grandi mecenati della moda, come Palazzo Grassi e Punta della Dogana (di Pinault, patron del gruppo Kering), a Venezia, come il più recente centro d’arte contemporanea della Fondazione Prada, sempre a Venezia, o l’appena inaugurata Fondazione Louis Vuitton, opera di Frank Gehry a Parigi.

Fondazione Louis Vuitton, Paris
Fondazione Louis Vuitton, Parigi

Questo connubio ormai è un dato di fatto. Però io non posso esimermi dal sentire che qualcuno ha preso qualcosa all’arte. Mi accade ogni volta che mi imbatto in una manifestazione di questo sovrapporsi di moda e arte, come quando cammino per strada e mi trovo davanti a vetrine di case di moda firmate da artisti. E’ un po’ come quando i turisti in giro per il mondo scattano le foto alle persone del luogo, pur sapendo bene che queste ultime non vedono la cosa con favore perché si sentono derubate della propria anima.

Certo, sappiamo bene che non siamo di fronte a niente di nuovo, perché l’arte da sempre è stata legata ai suoi committenti; basti pensare – uno per tutti – alla Chiesa. Le opere più importanti della storia sono nate da un gioco di forza tra il committente che voleva qualcosa e l’artista che la concedeva lottando comunque sempre per la propria libertà.

Ma cosa cerca la moda nell’arte contemporanea? Cerca di agganciare la creatività e il pensiero degli artisti per colpire gli acquirenti, sempre più in difficoltà a distinguersi con un paio di scarpe o una borsa. “I signori della moda” come li chiama Natalia Aspesi sono interessati a mettere il loro marchio sull’arte.

E quale arte prediligono e promuovono? È una questione di trend: c’è una chiara predilezione per quel che colpisce subito e si predilige un’arte provocatoria, con quel tanto di cinico che fa snob. E’ tornata la narrazione, il figurativo, e un interesse anche per il tragico, basta che abbia qualcosa di esteticamente immediato. Si vedono sempre meno i linguaggi più ermetici e complessi, come quelli concettuali. Per chi da sempre visita le mostre, questi centri , che tanto dettano legge nel mercato dell’arte, sembrano come un giro di giostra.

Carsten Holler, Fondazione Prada, The Doubel Club
Carsten Holler, Fondazione Prada, the double Club

Ma un giro di giostra è poi un male? No, niente catastrofismi è solo una direzione dei marchi del lusso, unici in questo momento interessati a spendere e a promuovere l’arte. Così mentre il “regno dell’effimero cerca l’immortalità” e le quotazioni dell’arte si impennano, atteniamoci a ciò che si vede e attendiamo il momento in cui questa fase lascerà spazio a nuove sfide e magari chissà a maggior libertà.

Arte in prigione

Raphaelle Ricol, Malgré la différence,2009
Raphaelle Ricol, Malgré la différence,2009

Nella Conciergerie, l’antica prigione di Parigi dove fu rinchiusa durante la rivoluzione francese la regina Maria Antonietta, contigua al palazzo che fu anche residenza dei re di Francia, si può visitare fino al 6 gennaio una mostra A’ Triple Tour che seleziona una piccola parte della collezione del magnate francese Francois Pinault.

Non vi stupite se questo famoso collezionista espone per la prima volta in Francia le sue opere: egli infatti ha eletto Venezia come città in cui far risedere la propria collezione, collocandola sia nel bellissimo edificio da lui restaurato a Punta della Dogana sia nel Palazzo Grassi, già della famiglia Agnelli.

Opere in mostra dentro una ex prigione: il tema della mostra è in sintonia con il luogo ed  è l’infermità. E la mostra anche se piccola è suggestiva forse molto più della visita alla stessa Conciergerie. Verrete subito accolti con un grande specchio di Michelangelo  Pistoletto,  intitolato La Gabbia, e poi come ha spiegato la curatrice della mostra, Caroline Bourgeois, il concetto di infermità viene sviscerato da più punti di vista: crisi politica ed ecologica, violenze urbane (con una bella scultura di Mona Hatoum), ma anche infermità personale data dal “male di vivere”. Ci sono opere curiose come l’installazione di Sung Yen e Peng Yu che indagano il tema della vecchiaia, affrontandolo in modo ironico, proponendoci tredici degli uomini  a grandezza naturale posti su delle sedie a rotelle, che si  muovono in tutte le direzioni e che sembrano giocare a dirigere il mondo.

Sung Yen e Peng Yu
Sung Yen e Peng Yu,2007

Altre opere sono denunce contro la censura e la negazione della libertà: penso, ad esempio, all’installazione di Bill Viola, dove si percorre un corridoio animato da persone diverse che cercano di parlare con la bocca tappata; oppure al quadro di Raphaelle Ricol con una donna velata in  nero vicino, si presume un uomo incappucciato di bainco come uno del Ku Klux Klan.

Bill Viola, Hall of Whisperes, 1995
Bill Viola, Hall of Whisperes, 1995

La mostra offre molti spunti su cui riflettere e dentro le sale sei perfettamente immerso nell’atmosfera del luogo, che si presenta come un carcere moderno in perfetto dialogo con il passato.