Pink Floyd: The mortal remains

Già il titolo della mostra-evento 2017 al Victoria and Albert Museum di Londra è epico: Pink Floyd, The mortal remains. E vi assicuro che l’intero percorso è, per chi come me ha amato questa band, un continuo tuffo al cuore. Allestita come solo gli inglesi sanno fare, la storia del gruppo si dipana in una serie di sale in penombra che mostrano chitarre Fender, pedaliere elettroniche, batterie dipinte con le famose onde di Hokusai, tante tantissime pubblicazioni, scritti autografi, spartiti, poster e naturalmente filmati dei membri della band che negli anni ne hanno fatto parte. Dagli inizi psichedelici agli ultimi concerti tutto è preso in considerazione. Dal pulmino nero con la striscia bianca acquistato per 28 sterline ai pupazzi animati usati nei concerti per l’album The wall tutto viene utilizzato per produrre nel visitatore un’emozione intensa. Si procede negli anni e attraverso la musica del gruppo fino ad arrivare meravigliati al capolavoro assoluto: The dark side of the moon al quale gli organizzatori hanno assegnato un posto centrale nella mostra.

Balza agli occhi immediatamente la connessione della band con l’arte e gli artisti della loro epoca. Le copertine dei loro album, per la maggior parte infatti furono ideate da Storm Thorgerson pioniere della manipolazione fotografica in un’epoca in cui Photoshop ancora non esisteva,  influenzato da Man Ray, Magritte, Picasso, Kandinsky, Juan Gris, Ansel Adams.

Si termina con la proiezione di tre canzoni dei Pink Floyd che rispecchiano tre momenti diversi del loro percorso musicale. Comodamente distesi sulla moquette di una grande sala scura illuminata solo da spot psichedelici.

Un formato quello di questa mostra, fratello della simile Revolution, che garantisce un’emozione continua, il tutto accompagnato da una Sound track d’eccezione data dall’utilizzo delle cuffie che vengono consegnate ad ognuno. L’unico neo è il prezzo decisamente alto di ingresso, ma che dire? Per i Pink Floyd ne vale comunque la pena!

You say you want a Revolution?

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E’ tempo di revival è tempo di riflettere sugli anni Sassanta. Ci ha pensato il Victoria and Albert Museum con una bella mostra intitolata You Say You Want a Revolution? che rimarrà aperta fino a febbraio 2017.

Visitarla è un piacere. Si viene immersi nel colore, nelle frasi scritte sui muri, nelle immagini e negli oggetti d’epoca. Non manca il video sul festival di Woodstock.proiettato da più pareti per offrire un’esperienza tridimensionale . E poi ci sono i cimeli dei Beatles, le minigonne e le copertine dei  dischi.you-say-you-want-a-revolution-victoria-and-albert-museum-5

Vi si raccontano le lotte per i diritti civili e si percepisce un’energia forte che credeva di riuscire a cambiare il mondo e migliorarlo un po’. Poi, prima di uscire, l’ultima stanza ci dà un assaggio veloce di cosa avrebbe fatto seguito a quegli anni. Scorrono le immagini e non so perché mi colpisce una vecchia clip della Coca Cola: in poche parole inneggia agli stessi ideali del decennio appena trascorso, ma presentandoli in modo subdolo vicino al prodotto da comprare.

E’ bastato poco tutto è finito dentro l’immagine di una bottiglia di Coca Cola.

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In questi giorni sono stata a vedere il film I’m Daniele Blake e mi ritrovo davanti all’immagine dell’Inghilterra di oggi. Penso che la generazione del protagonista,  ormai in là con gli anni è stata giovane negli anni Sessanta e ha respirato le utopie di allora. E adesso li ritrovo come Daniel Blake: un uomo spiazzato, emarginato non in grado di restare inserito in una società che non lo sente perché corre su binari troppo lontani da lui , le istituzioni non lo ascoltano anzi lo schiacciano con la burocrazia dettata dalla nuova tecnologia. Daniel è diventato un codice da inserire nel computer.

  Cosa è successo?  Chi gli ha tolto la dignità? dove sono finiti quegli ideali che in mostra mi davano coraggio ed ottimismo? .

Apro la televisione tra poco è Natale, tra poco la pubblicità del panettone mi dirà qualcosa e mi ricorderà come si vive bene dove esistono i valori come la condivisione, la solidarietà e il rispetto per l’altro.

Quando l’opera d’arte si può toccare…

photo-originalSi stima che nel mondo ci siano circa 300 milioni di non vedenti o ipovedenti. A tutti costoro è lampante che sia preclusa l’emozione trasmessa da un’opera d’arte visuale attraverso il senso che viene più enfatizzato quando si parla di arte: la vista.

In questo campo si può ovviare alla mancanza della vista attraverso esperienze che richiedono l’utilizzo di differenti sensi e che indubbiamente arricchiscono l’esperienza cognitiva dell’opera d’arte anche per un amante vedente dell’arte.

Un servizio che viene già offerto da diversi musei e gallerie (alla Tate e al Victoria and Albert Museum di Londra, per citarne due) è il cosiddetto Touch Tour che permette di avere un’esperienza tattile della scultura o dell’architettura toccando l’opera d’arte per coglierne la forma, la massa e la struttura.

Per rendere fruibile ai non vedenti anche la pittura dei grandi maestri la 3DPhotoWorks, di Chatham, New York, ha consacrato gli ultimi  sette anni di studi a trovare una soluzione che consenta ai non vedenti di “vedere”  l’arte, utilizzando uno dei sensi più sviluppati nella condizione di cecità: il tatto. Attraverso lo sviluppo ad hoc della tecnologia della stampa 3D, la ditta statuitense ha creato copie con lunghezza, larghezza, profondità e consistenza tali da creare un’immagine mentale del capolavoro attraverso la sua ispezione tattile. Accanto alla stampa 3D, che regala la dimensione dell’opera d’arte, sono inseriti nelle riproduzioni sensori che attivati dal contatto accrescono l’eperienza con musica o spiegazioni vocali per trasmettere al fruitore l’emozione del colore. Attualmente 3DPhotoWorks sta facendo una campagna di crowdfunding per trovare i fondi da destinare all’affinamento del progetto, che vorrebbe distribuire fra i musei e le gallerie d’arte in breve tempo.

3d art

Chiacchiere del lunedì

Delphine Boël, The Golden Rule blabla
Delphine Boël, The Golden Rule blabla

Se Dio vuole, i diritti umani sono popolari con tanta gente. La moglie, invidiatissima, di George Clooney è una avvocatessa specializzata proprio in questo campo. Una persona così interessante da essersi accaparrata lo scapolo d’oro del nostro tempo. Le star del cinema, poi, si fanno in quattro per proteggere i diritti e le vite di comunità marginalizzate ai quattro angoli del pianeta. Compreso il bel George, col suo impegno in Sudan.

Organizzazioni come Human Rights Watch non sono mai state così autorevoli col pubblico. Proprio quest’ultima ha celebrato con la sua cena annuale di autofinanziamento, pochi giorni fa a Londra, la meravigliosa figura di un sacerdote cristiano, padre Kinvi, che ha salvato moltissimi musulmani dalla vendetta delle milizie cristiane in Repubblica Centrafricana, mettendo continuamente a rischio la propria vita. Alla cena, che si è tenuta nel Victoria and Albert Museum, sono state battute in asta opere di Damien Hirst e di Jeff Koons. Arte e mondanità unite per i diritti umani. Tutto serve per promuovere l’unico vero baluardo a ogni forma di barbarie.