Ambaradam

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Sono in macchina per un lungo viaggio trovo una lunga file e penso : è’ un ambaradam, ossia un gran casino. Espressione idiomatica della lingua italiana che deriva dalla nostra storia coloniale. L’Amba Aradam, è una montagna (Amba) in Etiopia, ove le truppe italiane ebbero a combattere, nel 1936,  una battaglia complicatissima con truppe che si inseguivano e incrociavano in una situazione orografica assai confusa. Ma gli italiani bararono: risolsero la complessità della battaglia usando gas venefici (proibiti dalle vigenti convenzioni internazionali sulla guerra).

Vinsero, ma lo fecero commettendo un crimine contro l’umanità. Il regime fascista esalto’ il sacrificio e l’eroismo delle camicie nere della divisione Duca di Pistoia, che conquistarono la cima della montagna.

In verità di nero ci fu solo la nostra coscienza. Ambaradam: dovremmo ricordare questo nome non come sinonimo di casino, ma di vergogna.

 

 

 

I fantasmi dell’impero

mappa_Africa_Orientale_ItalianaOmicidi efferati, un complotto politico frutto di lotte per il potere, l’Abissinia (oggi Etiopia) occupata, amori più’ o meno fortunati e le velleità imperiali (e criminali) del Fascismo. Ingredienti per un giallo mozzafiato ambientato in quella che fu l’Africa Orientale Italiana, con un avvocato militare italiano impegnato in una missione strettissima e quasi stritolato da un gioco più’ grande di lui.  Un libro di tre amici – intitolato I fantasmi dell’impero – che hanno compiuto anni di ricerche per costruire una storia (di finzione) incentrata su tante storie individuali vere e su una conoscenza dei luoghi e delle istituzioni imperiali eccezionale. Leggendo il libro, ci si cala negli anni trenta e si viaggia fra Addis Ababa, Dessié, Macallé, Gondar, Bahar Dar; si attraversano la provincia del Goggiam e le montagne dell’Etiopia settentrionale. 51BdBPiVrSL._SY346_

Si incontrano le situazioni dell’impero: gli ascari, le scellerate bande di irregolari, i residenti italiani e i costruttori di strade, le città italianizzate (mi viene in mente il viale Mussolini a Addis, che oggi si chiama Churchill road), le camice nere in cerca di gloria, l’esercito. Si vive quella stagione della nostra storia in cui tanti italiani si recarono in Africa convinti di portare la civiltà, trovandosi invece sotto un’amministrazione che non esitava a usare ogni crudeltà, in virtù’ di puro razzismo e in barba alle regole del diritto internazionale umanitario. Tanti dei nostri eroici leader di allora oggi sarebbero solamente dei criminali internazionali, buoni per la corte dell’Aja. Il libro fa trasparire tutto questo in maniera molto intelligente, attraverso le storie dei singoli. Una bella storia e un monito: per quanto civili ci si senta, la barbarie è sempre dietro l’angolo.

Caffè dell’Etiopia!

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Caffè dell’Etiopia! Comprane una bella confezione: è davvero buono.

Siedo in uno dei tanti esercizi commerciali di Starbucks, tutti uguali, ma così comodi (è mattina presto e ho a disposizione una delle loro poltrone con tanto di tavolo da caffè e c’è Amy Winehouse nell’aria). Davanti a me c’è un cesto con caffè dell’Etiopia: l’origine è chiaramente indicata ed è venduto come un prodotto pregiato.

Eppure solo pochi anni fa Starbucks  non indicava l’origine di questo caffè e i produttori etiopici non godevano di un marchio che identificasse e promuovesse il loro ottimo caffè. Ciò è stato reso possibile da una causa legale sostenuta economicamente dalla Unione Europea.

In effetti un sacco di buone cose in Africa sono compiute da questa Unione Europea, che è un formidabile donatore e attore nella cooperazione  allo sviluppo. Attività economiche, scuole, ospedali, cultura e diritti umani. L’unione investe in tanti campi.

Lo fa con tutte le luci e le ombre della cooperazione, ma lo fa. E’ un partner sempre presente.

Quando si critica l’Europa perché non aiuta sulle migrazioni (o quando si spara a zero sulle istituzioni che hanno garantito pace e prosperità in un continente storicamente sempre attraversato da guerre), si dovrebbe pesare che nel mondo di oggi la pace e la sicurezza si ottengono anche investendo dove povertà e deprivazione creano spinte migratorie e conflitti di ogni genere. E questa Unione lo fa.

Bambini, chi li difende davvero?

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Balthus, Children, 1937

Non posso lasciare andare; non riesco a mettere tutto dietro alle spalle e tuffarmi su altre notizie. L’indagine dell’espresso del 25 febbraio condotta da Floriana Bulfon e Giovanni Tizian, dedicata ai ragazzi immigrati che abitano nel sottosuolo della Stazione Termini,  disposti a vendersi pur di non morire di fame, resta come un chiodo fisso nella mia testa.images-1

Prima di questa indagine nessuno ne parlava. Perché? Nessuno sapeva? Nessuno vedeva?

Mentre in  questi giorni ci strappiamo le vesti per i diritti dei bambini, leggo che  “secondo l’Europol diecimila minorenni non accompagnati arrivati in europa nel 2015 sono scomparsi”. Partendo da questa indagine, l’Unicef si sarebbe mossa con il ministero degli interni firmando un “protocollo” per monitorare i minorenni non accompagnati che arrivano nel nostro paese. Mi chiedo: perché firmare ora questo protocollo? Cerco e vedo che  la Convenzione di Dublino del 1990, con il regolamento del 2003, parla già chiaro riguardo a questo: i minori non accompagnati che arrivano sulle nostre coste hanno DIRITTO ad un tutore legale che si prenda cura del minore. Vi si parla di PROTEZIONE internazionale e soprattutto della possibilità ad essere ricongiunti ai parenti che si trovano in altri stati. Eppure qualcosa non funziona. Leggo ancora: i tempi per i ricongiungimenti sono troppo lunghi, molti di questi ragazzi vengono affidati a delle case famiglie, ma non ci stanno e scappano. Perché?  Non funzionano? Se una casa famiglia perde tanti ragazzi fallisce nella sua missione. Mi ricordo di una grande casa famiglia che avevo conosciuto quando vivevo in Etiopia: era portata avanti da degli ecceimgreszionali educatori italiani. Gigi, uno di loro, partiva tutte le notti: andava in giro per Addis Ababa a cercare  ragazzi e ragazze di strada, per invitarli a entrare in casa famiglia e compiere un percorso educativo. Con l’esperienza avevano trovato un modo di avvicinarli, di entrare in contatto con loro. Certo non tutti accettavano, ma molti di loro si lasciavano coinvolgere. Tutto si basava su un rapporto di fiducia, rispetto e stima reciproca.

I  poliziotti a Roma  non sanno più come far fronte a questa emergenza; il Prefetto addirittura sostiene che questa situazione va avanti ormai da decenni e che dunque è come un malato cronico impossibilitato a guarire.

Ci vorrebbero i miei amici di Addis, la loro esperienza, il loro cuore.

“ Gli amici mi dicevano che Roma era bella, ma non ho mai visto una persona buona qua”. Parole di Abdul di dodici anni, arrivato per mare risalito, dalla Sicilia e oggi per strada.

Cara Almea

Italianintransito è impegnata a sostenere un centro caritatevole che offe sostegno, in maniera concreta e efficace, a migliaia di persone poverissime che vivono a Addis Ababa in Etiopia.  Si chiama Centro san Giuseppe.

Perchè il Centro Sa Giuseppe ci rappresenta come italianintransito?

Perché chi gestisce questo centro è una signora, Almea Bordino, per metà italiana e per metà eritrea. Ha passato la propria vita in viaggio un po’ come noi. Almea si è trasferita da Asmara ad Addis quando era una ragazzina e lì ha costruito la sua vita, mai dimenticando il forte retaggio italiano della sua famiglia di origine. In lei convive un misto di culture. Lo stato italiano (i suoi genitori sono di origine italiana per via del nostro passato coloniale nella regione) le ha conferito la cittadinanza, ma lei rimane attaccata all’Etiopia per cultura e per radici: così parla italiano e amarico.

Ebbene questa donna  è un’imprenditrice, ha una sua attività che conduce con grande intelligenza e ha una famiglia molto bella composta da due figli. Dopo aver dedicato tanta energia alla cura della propria casa e al lavoro, ha pensato di fare qualcosa di più e dedicare metà del suo tempo agli altri. Un giorno, mi ha spiegato, ha sentito forte il desiderio di dare da mangiare a tutte quelle persone che chiedevano disperati un aiuto in mezzo alla strada. Lei è una ristoratrice e così ha deciso  di partire costruendo un piccolo luogo dove le persone potessero trovare un pasto caldo, con l’aiuto della parrocchia cattolica italiana di Addis. E’ partita  in modo semplice, ma siccome è una donna con forte doti di organizzatrice è riuscita a far crescere il centro e così è passata ad aiutare migliaia di poveri non solo con il cibo ma con mille altre attività. Tanto per riassumerle diciamo che paga le rette scolastiche, le uniformi e i libri a tantissimi bambini e bambine;  dà assistenza ai malati pagando loro le cure negli ospedali della città; ha aperto  una serie di dormitori per accudire gli anziani che altrimenti dormirebbero sull’asfalto delle strade (vi dormono anche tante  madri single poverissime).

Chi conosce Almea sa che è una donna molto forte, per niente arrendevole e prona a nessun compromesso. Ha dovuto combattere molto per arrivare a fare ciò che ha fatto; le difficoltà e le delusioni non le sono mancate.

Oggi il Centro è un luogo ove un povero che non ha niente viene ricevuto, ascoltato, vestito, ha di che sfamarsi e può curarsi. In questo luogo, l’ho visto io con i miei occhi, in più di un’occasione, ci si prende cura delle persone più povere:  così povere che noi, con tutti i nostri studi e col nostro incessante viaggiare, nemmeno ci immaginiamo. Se solo per un momento provassimo a metterci nei loro panni, proveremmo terrore.

Allora, cara Almea, a te che hai dovuto sopportare l’emarginazione subita da chi si impegna davvero per gli altri, a te che vedi ogni giorno una dimensione di vita terribile, testimoniando il dolore infinito degli ultimi, noi teniamo a far sapere che ti sosteniamo e che siamo dalla tua parte in questa folle e meravigliosa corsa a consolare chi soffre.

Chi volesse in qualche modo unirsi a noi, tramite un’adozione a distanza o sostenendo il centro in qualsiasi altro modo, può contattarci.

Chiacchiere del lunedì

… metti una sera a cena con delitto

Grazie, grazie a tutti coloro che hanno partecipato e contribuito con allegria alla cena con delitto organizzata sabato scorso. La cena è stata per noi una doppia occasione, incontrare tanti italiani che abitano come noi in Svizzera e realizzare una raccolta fondi per sostenere il Centro San Giuseppe di Addis Abeba in Etiopia. Il centro San Giuseppe è un luogo per assistere e sostenere tante famiglie povere di Addis Abeba. Il Centro garantisce fra le tante cose un supporto scolastico ai bambini, un’assistenza sanitaria e avviamento al lavoro per le fasce più povere della città.

La serata è stata per me ed Enrica la prima occasione di un incontro fuori dalla rete e mi sono convinta che se il blog è un bellissima opportunità di scambio ancor più  bello è parlarsi e incontrarsi  di persona.

L’obiettivo è stato raggiunto… tanti vecchi e nuovi amici riuniti insieme hanno reso questo evento indimenticabile! 

Il pretesto del delitto tratto da una storia di Agatha Christie ci ha fatto divertire. Abbiamo visto persone disposte a giocare e pronte e fare di tutto per stare bene e far divertire gli altri: così rispettosissimi italiani si sono trasformati in palme, barche, vicari, modelle, miliardari in carrozzina e tanti altri personaggi disegnati dalla penna della giallista. Abbiamo visto morti improvvisati che “galleggiavano all’orizzonte” sui tavoli e scanzonati ragazzi a pesca o in bicicletta così in un’atmosfera esotica e fatta di colpi di scena abbiamo trascorso una serata memorabile.

La serata è trascorsa in un attimo, anzi quasi troppo velocemente.  E per la bella atmosfera che si è creata vi vogliamo ancora una volta ringraziare di cuore, tutti! Vi faremo avere notizie dal Centro San Giuseppe, e chi di voi voglia collaborare ancora al benessere di bambini e mamme di Addis Abeba ci può contattare, vi daremo tutti gli estremi per continuare questa bella cooperazione!